Nei meandri di una psiche che avrebbe bisogno di una guardatina.

Quella mattina Luca non aveva la minima intenzione di andare dal Dott. Rinaldoni.

Quell’insopportabile vanesio, tragicomico monumento ad un glorioso passato ormai definitivamente sepolto, pallone gonfiato che trasudava arroganza e supponenza da ogni parola, ogni gesto, ogni silenzio, ogni stropicciatina di mani, ogni ironica grattatina di testa (non era meglio un normale “Ma cosa sta dicendo?”).

Quell’individuo che non gli ispirava alcun rispetto, e al quale pure per anni e anni si era appoggiato ascoltando i suoi risibili consigli senza la capacità di reagire, forse perché spesso diceva la verità…

Sì, è vero, la verità la diceva spesso e volentieri. Ma non basta dire la verità. Bisogna metterla umilmente a disposizione questa verità, non farla cadere dall’alto e tenerla legata a una corda impossibile da spezzare. Non basta dire “Io so la verità e tu no, pappapera pappappera…” sperando così di creare una dipendenza. E d’altra parte la felicità degli arroganti è contare quante persone dipendono dalle loro parole, dai loro giudizi, dai loro consigli.

Insomma, il Dott. Rinaldoni era stato in tutti quegli anni un pessimo terapeuta, almeno con lui. Di solito era molto più bravo con le donne, almeno finché non si innamorava di loro, perché poi scompariva nelle brume padane e molte, guarda caso, le scaricava proprio a lui che ne finiva immancabilmente inesorabilmente schiacciato.

Ma poi c’era un altro motivo per cui Luca preferiva non vedere mai più il Dott. Rinaldoni. Perché va bene la strana coincidenza di essere nati nello stesso giorno mese anno e città e di abitare nella stessa città (il Dott. Rinaldoni in zona molto più centrale, ma ovviamente lui aveva ben diversi mezzi finanziari), ma il sogno che aveva fatto quella notte lo aveva spaventato e quasi traumatizzato. Se Rinaldoni gli avesse chiesto di raccontargli il suo ultimo sogno, lui cosa avrebbe fatto? L’ultima volta che aveva tentato di imbrogliarlo raccontandogli un sogno immaginario era stato smascherato nel giro di due minuti…

Oltretutto di solito i sogni non se li ricordava, era quando andava da Rinaldoni che, col suo aiuto, frammenti incoerenti diventavano una trama degna di Wim Wenders. Ma questo, nella sua brevità, avrebbe potuto raccontarlo in tutte le sue sfumature: lui era inginocchiato in adorazione del Dott. Rinaldoni, contento di partecipare della Sua grandezza e sentendo che non sarebbe stato nulla senza di lui. Siccome i sogni sanno esprimersi solo per immagini, non c’era alcun indizio per capire se il rapporto era padre-figlio, fratello maggiore-fratello minore, o di tipo larvatamente gay fra due perfetti estranei.

A un certo punto il Dottore alzava ieraticamente una mano, dalla quale si alzavano l’indice e il medio, e pronunciava delle parole che, seppur dal tono apparentemente pacifico, non ammettevano replica alcuna “Luca, è tempo che tu abbandoni questo incongruo paradiso che non hai fatto nulla per meritare, cullandoti stancamente dietro la Mia immagine e spesso vendendola al colto e all’inclita macchiandoti così del terribile peccato di simonia. E’ mio pronunciamento che tu debba scendere nel mondo dei comuni mortali e ivi rimanere fin quando a mio insindacabile giudizio ti riterrò degno di ritornare in unione con me. Hai capito tutto, che mi stai guardando con la tua solita aria da pesce lesso?”.

Luca si era svegliato urlando nel suo lettino-piscina, il vicino di casa aveva dato due rabbiose nocchiate alla parete, e il sogno si era concluso.

Alla fine anche Luca aveva delle nozioni di psicoanalisi necessarie e sufficienti per analizzare il sogno (Freud stesso aveva brillantemente analizzato i suoi, alla fin fine, ignorando bellamente ogni paradosso di auto-referenzialità): quel sogno illustrava il suo ormai quasi fastidioso vissuto: che quel fetente di Rinaldoni fosse un personaggio virtuale, quasi un cartone animato, mentre lui, lui era una persona reale in carne ed ossa. Il suo Padre Celeste lo aveva cacciato dal Regno, e negli anni a venire aveva lasciato che fosse reiteratamente sbeffeggiato, ammanettato battuto dal suo stesso popolo, hai la minima idea del perché te lo meriti?, e infine più volte crocefisso in sala mensa, in verità tutte le volte uscendone più vivo e incazzato di prima, probabilmente grazie alle robuste iniezioni di DNA jesino che ne caratterizzavano il genotipo e ne facevano un raffinatissimo schermidore.

Lui combatteva tutti i giorni la dura eppur gloriosa battaglia della sopravvivenza, della quale Rinaldoni nulla sapeva e nulla poteva sapere, sospeso nel suo Empireo talmente rarefatto da portare all’anossia chiunque vi entrasse senza un’adeguata acclimatazione.

Lui si innamorava, si arrabbiava, soffriva, gioiva, si illudeva, rincorreva tutti i legnetti che gli venivano lanciati per vederseli poi portar via da cagnoni che non aveva mai nè visto nè conosciuto ma abbaiavano meglio di lui. Rinaldoni pensava, meditava, cogitava, elaborava teorie che poi cercava coscienziosamente di passare al vaglio delle evidenze empiriche, constatava, riteneva, supponeva, desumeva.

Ma poi c’era un altro motivo ancora per cui Luca non voleva confrontarsi col Dott. Rinaldoni: per la prima volta gli aveva disobbedito, non aveva messo in pratica nessuna delle sue indicazioni terapeutiche (indicazioni che lui travestiva da personalissime opinioni, ma che in realtà erano degli ordini tassativi, la cui mancata esecuzione avrebbe comportato un numero imprecisato di sedute in cui sarebbero state analizzate TUTTE le resistenze, TUTTE le contraddizioni, il gioco non valeva la candela…). Luca aveva fatto di testa sua e aveva scaricato tutta la sua rabbia, la sua vergogna di sè stesso, la sua sfiducia, il suo minimalismo esistenziale, il suo masochismo morale erigendo in poche ore un battagliero Muro di Berlino tra sè e ogni ipotesi di Amore (ma anche tra ogni ipotesi di Amore e sè). Un muro presidiato da guardie armate fino ai denti, con mine e filo spinato percorso da scariche a 40.000 volts.

Mentre il ritardo di Luca diventava ormai sospetto, il Dott. Rinaldoni valutava diverse ipotesi: chiamarlo al cellulare per rammentargli l’appuntamento? mandargli un sms? un’e-mail? un piccione viaggiatore?

Ma mentre le valutava, capiva che Luca era un paziente un po’ particolare: il trattamento era iniziato e si era interrotto tumultuosamente una lunga serie di volte, ed ogni volta Luca ritornava dicendo “Non so perché sono qui e non vorrei esserci….”. Non era sempre facile condensare 26 anni in poche righe, ed io i miei in un solo saluto. Ma davvero, Rinaldoni stava per fare quella cosa che tante volte aveva stigmatizzato nei suoi colleghi a orientamento psicodinamico ortodosso: ricorrere al controtransfert.

Per la prima volta da tanti anni Rinaldoni si lasciò invadere da tutte le sensazioni che gli provocava quella specie di fratellino minore ribelle, autolesionista, a volte francamente ai limiti estremi del disadattato, incapace di gestire denaro carriera storie d’amore immagine sociale amicizie rapporto con l’autorità rapporto con lo Stato. Sentì che gli sarebbe mancato, sentì che avrebbe lasciato per sempre vuota la sua ora del lunedì, ma capì che ognuno dei due doveva recidere il cordone ombelicale. Era pericoloso, certamente. Ma se pensava al sogno che aveva fatto, in cui lui, nella parte di Dio Padre, mandava Luca sulla terra a trasmettere il Suo Vangelo, si rendeva conto che ogni prosecuzione dei contatti interpersonali sarebbe stata ancora più pericolosa.

E a quel punto si lasciò serenamente guidare dall’istinto a digitare per Luca lo scarno SMS “Buonavita, Luca, buonavita”.

Due secondi dopo si accasciò sulla sua comoda poltrona vittima di un (fatale?) attacco cardiaco.

4 Risposte

  1. Molto molto coinvolgente questo brano sul dualismo che esiste in noi. La voglia di scappare liberi nel mondo e il bisogno, anche economico, di lavorare di stare dentro i dogmi e vivere. Il fascino degli opposti, delle continue corse da una parte o dall’altra senza mai trovare il centro, che non c’è.

  2. Quanto c’è di autobiografico e quanto di immaginario in questo raccontino che peraltro risale al 2008, ma resterà ipostaticamente attuale nei secoli dei secoli, anche dopo che avrò lasciato questa pozzanghera che invano cerca di deodorarsi senza apprezzabili risultati?

    Come sempre, non lo so. Se limitassi la mia esistenza ai dati concreti e storici sarebbe un gran brutto affare. Ma per fortuna la vita è ben altro che questo.

    Ti assegno i galloni di Lettrice Attenta. Fanne buon uso.

  3. Il racconto è palpitante, e valeva la pena rispolverarlo.
    Mi verrebbe da chiedere, alla parte autobiografica dello stesso, se la morte dell’alter ego abbia poi coinciso con una gioiosa e produttiva liberazione; ma non lo faccio, per non correre il rischio di essere identificato con una sua reincarnazione…

    1. Alla morte (secondo “Totem e tabù” si potrebbe tranquillamente parlare di simbolica “uccisione”) del padre ancestrale seguono confuse e complesse reazioni di difficile lettura. Tieni conto che il racconto al reale non è uguale, ti direi se fossi un rapper però rapper io non sòn. E’ una sua avventurosa translitterazione, come già esponevo nella precedente replica. Aggiriamoci, vivaddio, ogni tanto nel comodo e sbrigativo mondo dell’indecidibile. Pregasi immaginare un emoticon dall’espressione criptica.

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