Eufemio in Paradiso – riflessioni del protagonista sul trascendente.

Riassunto delle puntate precedenti: Eufemio si ritrova in Paradiso inopinatamente e contro la sua volontà. Definirlo disorientato è un garbato eufemismo. L’Entità Somma non la prende bene.

Insomma, alla fine nell’aldilà contavano più i sentimenti che le azioni. Magari è anche giusto, si diceva Eufemio, ma certo che l’aldiquà non funzionava così. Nell’aldiquà le tue azioni pesavano, spesso e volentieri in modo irreversibile, e ti inchiodavano ai tuoi errori, che quasi nessuno era disposto a dimenticare. Viceversa, le azioni virtuose finivano per passare inosservate, nient’altro che l’espletamento del proprio dovere.

Solo che qui in Paradiso Eufemio si era sentito più volte sfiorato dal gelido vento di storie di cattiveria e perfidia, sempre riscattate da opportuni pentimenti corredati da indicibili sofferenze. Meno chiaro era quanti di costoro avessero riparato tangibilmente alle proprie malefatte, perché di questi minimalismi comportamentali sembrava non rimanere traccia.

Sarebbe stato giusto distinguere tra chi violava delle norme morali più o meno astratte, bestemmiando drogandosi andando a puttane o masturbandosi compulsivamente, e chi intenzionalmente e magari ridendoci sopra provocava il dolore di anche un solo essere umano. Per loro, Eufemio avrebbe previsto un’eternità di efferate sevizie, operazioni a cuore aperto senza anestesia, smembramenti e vivisezioni con lame acuminate intinte nel pepe di Cayenna.

“Ma qui decisamente non comando io”.

Ad Eufemio sembrava di non aver mai fatto del male a nessuno, se mai il male (e anche in copiosa quantità e variegata qualità) l’aveva ricevuto e subito. Gli sembrava di aver fatto sempre il suo dovere, fin quando si era reso conto che il gruppo della maglia rosa lo aveva irreparabilmente distanziato lungo gli impervi tornanti di una vita sempre più ripida, e allora si era ritirato in un purgatorio terrestre fatto di libertà e di vuoto.

Nessuno aveva mostrato di ritenere un problema la sua assenza.

Questo era quello che gli sembrava, ma forse non sapeva ancora ragionare da Mente Pura ed era troppo vincolato ad un modo di ragionare opportunistico, autocentrato, autoindulgente, individualistico tipico di quegli esseri biologici che immaginavano un Dio su misura e a loro uso e consumo.

Il bello era che Eufemio non si sarebbe potuto considerare un ateo e neppure un agnostico: la sua unica colpa era quella di non sapersi mettere in relazione col trascendente. Già gli riusciva difficile con le persone in carne ed ossa, del 99,9 periodico per cento delle quali avrebbe immediatamente e con somma goduria fatto a meno, figuriamoci con un’Entità misteriosa e paradossale.

Sapeva che c’era qualcosa, più o meno come credeva agli extraterrestri senza averne mai visto uno dal vivo, e sapeva che questo in qualche modo lo riguardava. Ma non ne faceva il vertice della sua esistenza.

Qualche volta andava anche a Messa, prevalentemente in inverno. Gli piaceva appisolarsi (a volte svegliato gentilmente dal vicino affettuosamente severo) cullato dal tepore della chiesa, dal lisergico odore dell’incenso, da quei solenni canti ai quali lui, stonatissimo, non poteva partecipare, dalla ritmicità delle risposte dei fedeli e da qualcos’altro che non sapeva descrivere ma pur tuttavia lo rassicurava e lo faceva sentire protetto.

Talvolta quando scambiava un segno di pace il vicino non vedeva e preferiva dare una mano a qualcuno più lontano ma meglio vestito e meglio odorante.

E gli piaceva anche confessarsi da Don Antonio, con cui però parlava di ecologia e di storia della città, dopo di che il suo confessore invariabilmente concludeva “Peccati ne avrai fatti, ma senza neanche accorgertene o senza considerarli tali. Per penitenza starai tre giorni senza bere”.

Le poche volte che, da bambino, aveva immaginato il Paradiso, Eufemio lo immaginava come un posto dove ogni desiderio diventava realtà.
Desideravi mezzo chilo di patatine fritte e, zac, eccole lì fresche e croccanti, le mangiavi tutte e non ti veniva neanche un’ombra di mal di pancia.
Volevi visitare la Cina e subito, come un angelo invisibile e guizzante la sorvolavi tutta, Pechino Canton Shanghai, le moschee le pagode la muraglia le risaie sconfinate.
Volevi fare una partita a pallone e ti ritrovavi a San Siro a ricevere un assist da Rivera, fare uno stop a seguire che mandava Burgnich fuori tempo, far passare la palla sopra la testa di Picchi e fulminare Sarti con una fucilata nell’angolino destro, per la disperazione della famigliola di aracnidi che stazionava lì indisturbata da anni.

Ma questo era un Paradiso dove i desideri sembravano non esistere più.

2 Risposte

  1. Completamente annichilita dalla calura, la testa evaporata, non riesco a commentare, ma per leggere, leggo e di gusto. Sempre bravo e interessante.

    1. Essendo tu la presidentessa in pectore del mio fan club, non puoi che essere perdonata, aspettandomi comunque commenti più articolati quando la calura si sarà attenuata.

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