Le parole fluiscono come una pioggia infinita in una tazza di carta
Strisciano nel passare e si disperdono per l’universo
Pozze di dolore, onde di gioia
Vanno alla deriva attraverso la mia mente aperta
Possedendomi e accarezzandomi
Jai guru deva om
Niente cambierà il mio mondo
Niente cambierà il mio mondo
Niente cambierà il mio mondo
Niente cambierà il mio mondo
Immagini di luci spezzate che danzano
Davanti a me come milioni di occhi
Mi chiamano insistentemente da ogni punto dell’universo
Pensieri si snodano come un vento irrequieto
Dentro una cassetta della posta
Rotolano alla cieca mentre si fanno strada attraverso l’universo
Jai guru deva om
Niente cambierà il mio mondo
Niente cambierà il mio mondo
Niente cambierà il mio mondo
Niente cambierà il mio mondo
Suoni di risa, sfumature d’amore trillano attraverso le mie orecchie aperte
Incitandomi e invitandomi
Amore infinito ed eterno che mi splende tutto attorno
Come un milione di soli
Continua a chiamarmi da ogni punto dell’universo
Jai guru deva om
Niente cambierà il mio mondo
Niente cambierà il mio mondo
Niente cambierà il mio mondo
Niente cambierà il mio mondo
Jai guru deva
Jai guru deva
Di John Lennon praticamente tutto il mondo conosce “Imagine”; qualcuno (ma pochi) non conoscono “Give peace a chance” e “Happy Xmas (war is over)”, canzoni bellissime ma, come dire un po’ didascaliche nel loro portare un messaggio di pace e tolleranza universale e, verrebbe da dire, transculturale. Mettiamoci anche “All you need is love” che, a livello di esecuzione, è uno splendido prodotto dei Beatles in quanto ensemble (John, Paul, George, Ringo e anche se non soprattutto George Martin, inventore dell’incredibile finale) ma che a livello compositivo è John Lennon 101%.
Ma anche John Lennon visse delle importanti oscillazioni fra l’intimista e il sociale, e parecchie delle sue canzoni meno famose (ma non meno belle) parlano in modo assolutamente autocentrato ed autoreferenziale delle sue emozioni, della sua fluidità mentale che spesso rasentava (come capita a tantissimi artisti) una tutt’altro che metaforica pazzia.
Questa canzone, qualcuno certamente lo ricorderà, nobilitò (insieme all’altro gioiello “The long and winding road” in puro e delizioso stile maccartneiano) il triste, bruttarello album d’addio dei Beatles, quel “Let it be” (Così sia) che la band aveva registrato prima di “Abbey road” ma inizialmente aveva pensato bene di buttare nel rudo tanto poco lo trovavano all’altezza.
Uscì, la canzone, come un prodotto ufficiale dei Beatles, ma Paul, George e Ringo ne scoprirono l’esistenza quando John portò ad Abbey Road un nastrino chitarra e voce su cui poi Phil Spector (che aveva in qualche modo defenestrato George Martin) inserì una serie di ridondanti effetti sonori. Come tale, lo si può considerare un pezzo di John Lennon a tutti gli effetti.
Perché ci faccio sopra un post?
Perché se avessi voglia di scrivere una canzone in questo preciso momento cercherei di scrivere qualcosa del genere. Ma non credo che mi verrebbe altrettanto bene.
Poi magari nei momenti più reattivi la canterei come l’ha splendidamente ricantata David Bowie, con la piena benedizione di Lennon che collaborò all’incisione suonando la chitarra e partecipando ai cori.
Ci fai conoscere sempre personaggi e canzoni su cui non abbiamo soffermato lo sguardo, almeno io che un certo tipo di musica l’ho accettata, ma mai cercata. belle ambedue. Ciao Riri52
Sono contento che ti siano piaciute entrambe. Io personalmente ancora non ho ben capito chi e cosa ti piace e non ti piace e soprattutto perché, ma il problema non mi toglie il sonno.
Buona vita.
il bello della vita…
La vita è bellissima nonostante tutti gli accidentali marchingegni che l’entropia diuturnamente vi dissemina. La vita è l’arte dell’incontro. Le possibili combinazioni sono virtualmente infinite e consentono qualunque tipo di esito. E qualunque cosa succeda, ne vale sempre la pena.
Un abbraccio.
Mi ha riportato indietro di 25 anni, questa canzone. Dolorosamente e poi dolcemente. Quindi ti ringrazio per la dolcezza che ho provato ascoltandola, perché alla fine solo quella, è rimasta.
Mi sorprende sempre come le canzoni, e tutta la musica, abbiano il potere di farti andare indietro nel tempo, di portarti esattamente nel posto in cui eri quando le ascoltavi, fino a farti sentire perfino l’odore di quel luogo, e farti rivivere, durante il loro ascolto, tutte le sensazioni che provavi allora. E questa sera, ascoltando Across the universe, è successo proprio così. Strana, la mente. Potente.
Ciao, caro Luca. Stammi bene, come direbbe il nostro Paolo Nori (che ha ripreso le sue letture del lunedì in libreria, e sarebbe ora che tu ti decidessi a venire ad ascoltarlo).
Verrò, verrò, è fuori discussione, perché qualcosa deve pure accadere faceva dire Roberto Roversi a Lucio Dalla in quella incredibile bellissima canzone che è “Anidride solforosa” in uno stizzoso recitativo. Ma non per il momento.
Se dovessi specializzare il mio blog (ma non ho alcuna intenzione di farlo) forse lo dedicherei alla lenta paziente dolceamara riscoperta di tante piccole perle musicali sparse per il tempo e per l’universo. Sicuramente prima o poi incontrando problemi rispetto ai diritti d’autore, motivo in più per evitare ulteriori grane al mio portafoglio già desolatamente vuoto.
Tutte le opere d’arte hanno un enorme potere evocativo, in qualche modo (ma solo in qualche modo) oggettivo, rispetto al significato che l’artista trasmette (e ovviamente un racconto di Hemingway o un quadro di Caravaggio comunicano significati più univoci di un racconto di Kafka, per non dire Joyce, o un quadro di Picasso o Dalì, un ode di Manzoni è decisamente più oggettivabile di una poesia di Sanguineti, da una parte “Fu vera gloria? Ai posteri l’ardua sentenza”, dall’altra “Afferra questo mercurio, questa fredda gengiva, questo miele, questa sfera di vetro arido”), ma anche e soprattutto soggettivo, legato in modo assolutamente “freudiano” alle circostanze della prima fruizione, o di una fruizione particolarmente pregnante, non per l’opera in sè, ma per quello che in un qualche momento la “circondava”.
Lennon e Bowie sono due geni assoluti (secondo me il secondo ancora più del primo, ma sono opinioni personalissime) e parecchi loro testi potrebbero tranquillamente stare accanto a Shakespeare, Milton, Pope in qualunque buona antologia della poesia britannica.
Chi brilla della fioca luce che arride allo scribacchino dilettante non può che illuminarsi d’immenso alla abbacinante luce dei grandi.
E così sia.