Andare alla deriva non è poi così brutto: significa riconoscere, in accordo con la metafora gioiosamente marinaresca che tale espressione evoca, che esistono correnti oceaniche talmente forti che il tuo misero malandato timone non può sperare attendibilmente di controbatterle.
Allora è meglio abbandonare il timone e smettere di giocherellare con delle vele che, non solo non sai usare, ma ti aggrovigliano con i loro mille fili, legacci, gomene fino a lasciare sulla tua sensibile pelle segni indelebili.
Andare alla deriva, espressione che i benpensanti usano con significato molto negativo e con fare sprezzante, è viceversa un’esperienza vagamente zen, che andrebbe accompagnata con dei piccoli mantra in sanscrito o in parmigiano stretto.
E’ un’esperienza definitiva e seminale che può sganciarti da una vita inutilmente produttiva e restituirti a una vita produttivamente inutile; emanciparti da una folle sanità e regalarti una sana e consapevole follia (che ovviamente salva il giovane dall’entropia e dall’iscrizione al PdL).
Nell’andare alla deriva scopri i mille sapori nascosti, gli infiniti retrogusti, gli interminabili irrinunciabili baluginii dell’esistenza, che nel seguire faticosamente e banalmente una rotta con un principio e una fine non riusciresti mai a distinguere.
[“Ma dal basso puoi scoprire le sottili incrinature che non puoi studiare all’Università” cantava Gianfranco Manfredi sul finire degli anni ’70, quando le case discografiche non avevano alcun problema a dare spazio anche a chi cantava delle idee. E i talent-show erano non solo ancora lontani, ma virtualmente inimmaginabili neanche con tutti gli allucinogeni della Terra.]
Nell’andare alla deriva riscopri il gusto del ritorno al processo primario, quello delle libere associazioni e della creatività più indiscriminata: da quel momento una rosa cessa di essere “una rosa e nulla più” (credo si tratti di una citazione di William Blake ma non ci giurerei) e (questo invece è sicuramente William Blake) puoi vedere l’universo in un granello di sabbia.
Se poi riesci a fare tutto questo senza diventare buddhista, cultore del reiki o affiliato a qualche associazione italo-indiana, insomma senza intrupparti in qualche megacarovana del trascendente ma restando orgogliosamente e testardamente un uomo con la sua storia e la sua individualità, la soddisfazione è ancora più sottile.
Come cantava il mitico e totemico Augusto Daolio nell’ormai preistorico 1985 nel pezzo d’apertura dell’album dal profetico titolo CI PENSERA’ POI IL COMPUTER (Dio se ci ha pensato…)
La vita è un fiume lento
ricama la poesia
ti prende per la mano solo
se tu hai tanta fantasia
se vedi oltre le nubi
il sole che non c’è
se senti dentro le voci forti
che gridano la verità.
Noi sempre alla deriva
noi sola ambiguità
noi fermi ad aspettare un treno
che non arriverà.
E’ vero, il treno non arriverà, e la cosa non ci procurerà alcuna delusione perché nel profondo lo sapevamo e forse facevamo solo finta di aspettarlo: uno dei motti di quelli come noi è o non è “E’ meglio viaggiare pieni di speranza che arrivare”?
Sono consapevole del fatto che non ami i commenti che si limitano a esporre parole tipo: Bello, bravo, mi piace e simili.
Ma che dire, dopo aver letto questa pagina? Mi vien da dire che mi inchino davanti a un Maestro. Ecco, basta così.
(E comunque me, la parola “deriva”piace. Mi piace, quasi sempre, non sapere dove approderò).
Maestro poi no. Mi accontenterei di bidello, applicato di segreteria, uomo delle pulizie e ne avrei già abbastanza.
Ogni tanto rièdito vecchi post del vecchio blog che, al tempo, non aveva forse letto e commentato neppure il classico cane perché trovo ingiusto che scompaiano nell’oblio. Poi in realtà brillano di pallida diafana luce per un paio di giorni e ritornano nell’oblio comunque ma, come dire, do loro una piccola chance.
Vuoi mettere?