Archivi Mensili: marzo 2013

E pensare, Enzo…

Pensare, Enzo, che in uno dei miei ultimissimi post, non più tardi di una settimana fa, ti avevo infilato in una schiera di “cantanti non cantanti” [che schierava insieme a te Piero Ciampi, titolare del post, Claudio Lolli e ovviamente Paolo Conte del quale hai reinterpretato alcune delle più belle canzoni, da “Bartali” (quella dove “abbaia la campagna”) a “Sudamerica” (quella dove “i ballerini aspettan su una gamba l’ultima carità di un’altra rumba”) a “Questa sporca vita” (quella della sublime tautologia al limite del delirante-demenziale “Se non avessi questa vita morirei”)]

 

Rispetto ad altre morti (e penso al buon Febo Conti) che mi hanno attivato con una benigna ma anche un po’ toccante abreazione ricordi sepolti sotto anni o decenni di oblio, te ti avevo sempre in mente. E lo sapevo che non stavi bene, anche se probabilmente hai vissuto la convivenza col tumore con la stessa pudicizia un po’ scontrosa di Mennea che quando lo incontrava un conoscente in ospedale diceva che era venuto ad accompagnare un parente. Ti vedevo con quell’aria che un po’ si capisce e un po’ non si capisce, ma alla fine si capisce benissimo.

E quando ti vedevo il pensiero ti oltrepassava e vagabondava indietro a una storia che sembrava, in tutto e per tutto, un film neorealista con qualche spunto grottesco e tanta allegra miseria, in quegli anni che transitavano fra il dopoguerra e il boom in una Milano che doveva essere, per chi se ne innamorava, bellissima come certe donne dal fascino contorto, obliquo e dionisiaco (e come non farsi venire in mente Mariangela Melato, che a modo suo stava a Milano come un’altra ancora più donisiaca, Nannarella Magnani, stava a Roma).

Il Santa Tecla. Che uno immagina in periferia tipo Lambrate e invece è a dieci  minuti a piedi dal Duomo. La fine degli anni ’50 ed un incredibile dream team di volenterosi ragazzi, conglomerati con Milano, che si chiamavano, in ordine sparso, Adriano Celentano, Tony Renis, Giorgio Gaber, Gino Santercole, Luigi Tenco e per l’appunto Enzo Jannacci, di cui il solo Elio Cesàri in arte Tony Renis con radici lombarde, Tenco transfuga da una genova francofila e brelian-brassensiana che lo rispecchiava solo in parte, Gaberscik ovviamente triestino-istriano e gli altri tre solidamente pugliesi.

Il vuoto mito americano di terza mano che allora però non sembrava vuoto e poteva essere anche di quindicesima mano ma era bello da sognare, un congegno spaziotemporale che vi spostava dai Navigli al Potomac e ritorno.

Eri parte integrante e vivacissima di un big bang che ha lasciato un segno profondo nella musica, nello spettacolo, nella cultura italiana. E c’è poco da dire, la metà secca di quel sestetto oggi non c’è più. Come se gli uomini di spettacolo facessero una fatica incredibile a raggiungere una piena vecchiaia (che oggi come oggi è collocabile alla soglia degli 80 anni) e avessero fretta di confrontarsi con altri mondi e altre dimensioni.

Per tanti motivi per certi versi concatenati fra loro, non ho tempo e modo (ma credo che vada bene anche così) di dedicarti un post articolato, meditato, frutto di un attento lavoro di riflessione e di ricerca.

Ma poi mi dico, Enzo, che non ti piacerebbe. O quanto meno mi piace pensarlo.

E allora, come la fantomatica scimmia che, una volta su svariati miliardi, picchiando a caso sulla tastiera potrebbe riscrivere pari pari i Promessi Sposi (che, chissà perché, mi ricorda tanto la metafora tratta dalla fisica quantistica del gatto che è simultaneamente vivo e morto finché l’osservatore non ne verifica le effettive condizioni) ho lasciato che le dita vagassero, piene di affetto per te e memore di tutta la gioia profonda che mi hai saputo dare, sicuro che qualcosa di sensato avrebbero messo insieme.

Altrimenti, come avrebbe concluso un altro grandissimo milanese, che però mi ha dato più dolori e principi di noia che gioie,

Ma se invece fossi riuscito ad annoiarvi, credete che non s’è fatto apposta.

 

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I letterati russi e i letterati emiliani.

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I letterati russi, che tu tanto ami, te li immagini avere incidenti a migliaia di chilometri da casa e con modalità bizzarre: Daniil Charms potremmo immaginarcelo centrato da una mongolfiera in caduta libera alla periferia di Bangkok mentre insegue un guidatore di risciò che gli ha rubato il borsellino; Oblomov azzannato a morte da un gabbiano al quale cerca di rubare le uova dalle parti di Capo Horn; Dostoevskij travolto da una valanga su una vetta inesplorata del Nepal mentre gli sembra di aver intravisto finalmente, nel baluginio del sole al tramonto sulle nevi eterne, la Verità.

I letterati emiliani hanno incidenti sempre a due passi dalla casa che in quel momento occupano, mentre procedono ad andatura regolare pensando alle avventure della gallina Bernice, in luoghi dolcemente ordinari come Basilicanova o Casalecchio di Reno.

I giornalisti valutano la notizia e la infilano nelle pagine interne, rendendola più ghiotta con delle delinquenziali esagerazioni (per cui sabato ti davano per moribondo e oggi si scopre che non lo sei mai stato).

E quando ti sveglieranno dal coma farmacologico, stai tranquillo che ci saranno le stesse infermiere di “Grandi Ustionati” (trasferite nel frattempo da Parma a Bologna perché il destino segue delle logiche impervie ma inesorabili) che ti chiameranno ancora “Omaccione”. E per la gioia scriverai di getto due o tre romanzi.

Piero Ciampi e Pietro Mennea.

CattabianiInizialmente volevo fare un post su Piero Ciampi, semisconosciuto cantautore livornese che è stato splendidamente ricordato un paio di giorni fa dai suoi due colleghi Ugo Cattabiani e Alessandro Casappa (con la partecipazione straordinaria sotto tutti i punti di vista di Antonio Silva del Club Tenco) in una di quelle iniziative multimediali polisemantiche che germinano nei locali ricchi di cultura, di pensiero, di umori germinali della Biblioteca Civica di Parma.

Mentre il post non poteva decollare per le solite stucchevoli ragioni tecnico-logistiche di impervio ed avventuroso accesso a Internet che oramai non menziono più perché non ho voglia alcuna di farmi commiserare, sono stato colpito ad altezza d’uomo dall’inopinata notizia della morte di Pietro Mennea.alle

Quando due cose capitano a poche ore di distanza (di fatto, mentre Ugo e Alessandro celebravano e cantavano Piero Ciampi, Mennea già non c’era più ma io non lo sapevo ancora) chi ha uno psichismo tendente al sincretico, all’erratico, al divergente semplicemente accomuna le due cose, anche se il loro verificarsi in quasi contemporanea è dettato dalla Più Cieca Delle Casualità, e vi trova delle affinità che rendono quasi preziosa la loro sincronicità.

Perché, Jung non lo dice esplicitamente in nessuno dei suoi testi, al massimo lo lascia esplicitare a Wittgenstein, ma ce lo lascia largamente capire, i nessi causa-effetto non fanno parte della realtà ontologica, sono accessori cognitivi della mente dell’uomo che guarda e non può che catalogare, e che li infila a mo’ di assi portanti nella realtà che percepisce così che lo spaventi, lo addolori e lo confonda un po’ di meno.

0Niente faceva di Piero Ciampi uno chansonnier (nei tardi anni ’50 la parola “cantautore” ancora non esisteva*. E niente faceva di Pietro Mennea uno sprinter.

Eppure l’uno e l’altro hanno, con somma testardaggine e anche a costo di farsi del male, deciso qual’era la loro strada e l’hanno perseguita fino in fondo.

Pietro arrivò a disputare 5 olimpiadi vincendone una, a stabilire un record del mondo dei 200 metri che resse 17 anni (e 34 anni dopo è tuttora record europeo), a collezionare una ricca collezione di medaglie di tutti i tipi fra le stesse Olimpiadi e i Campionati Mondiali ed Europei. Ciampi poster

Piero, viceversa, in vita ebbe pochissime soddisfazioni se non quella di vedere una sua giovanissima ma già famosa conterranea rifiutare i facili successi di Sanremo, Disco per l’Estate, Cantagiro, Canzonissima, Cantatè, Cantachetipassa per pubblicare a soli 20 anni un intero elleppì (come si diceva allora percependo un vinile con almeno 4 sensi su 5 perchè solo i maniaci arrivavano a leccarlo) con le sue canzoni.

Per lui ogni concerto era più una corrida (emblematica la sua tagliente risposta a uno spettatore del Teatro Ariston che lo fischiava ironizzando sulla sua evidente quasi tautologica ubriachezza, “Io rischio, te no!”) che una passerella, più una manifestazione sciamanica che la stanca ripetizione del successo del momento.

ciampi_locandina_webMa anche la vittoria di Pietro a Mosca, rimontando 5 metri sugli ultimi 50 all’apollineo Alan Wells ormai sicuro del successo, sembra un concerto di Ciampi.

Gli omaggi di Paoli, Lolli, Conte, Paolo Rossi arrivarono quando si era già arreso alla signora che, come scrisse al suo fedele amico Ezio Vendrame, “lo veniva a trovare tutte le notti ma è molto brutta, sai Ezio, e io la faccio dormire in un’altra stanza”, probabilmente contento che se lo portasse via quando i plasticati anni ’80, talmente distonici per lui che gli sarebbero certamente stati fatali, erano iniziati da una manciata di giorni.

Tutte le volte che sentite Paolo Conte e Claudio Lolli o qualcun altro con una voce che sta all’armonia ortodossa come Polifemo allo strabismo, pensate che senza l’azione da rompighiaccio di Piero (che si era innestata, estremizzandola, su quella di Jannacci, che però a parte i problemi di intonazione era ed è tuttora un eccezionale musicista dotato di un incredibile swing mentre Ciampi aveva qualche problema anche col campanello di casa)  probabilmente quel cantautore si limiterebbe a scrivere e tutt’al più a dipingere.

E quando veio-1973-retro2-abm1dete qualche fisico scarno, smilzo, sgraziato passare davanti a delle montagne di muscoli e proteine frutto forse di Madre Natura ma ancora più probabilmente di Zia Chimica, guardate bene, strizzate l’occhio per percepire meglio e forse l’inconfondibile sagoma di Pietro Mennea (ormai restituita all’Universo e quindi aspaziale ed atemporale) farà una smorfia che oggi voglio chiamare sorriso dalla sua spalla sinistra.

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*La inventarono, secondo il sedimento progressivo delle leggende urbane, proprio sul finire degli anni ’50, l’ormai obliato Ennio Melis e Vincenzo Micocci, famosissimo per essere stato immortalato  da Alberto Fortis (con le inequivocabili parole, impossibili da scambiare per una affettuosa complimentosa celebrazione “Vincenzo io ti ammazzerò, sei troppo stupido per vivere…”) come l’archetipo dei discografari romani e financo romaneschi, incapaci di capire tutto quello che succede più a nord della Maremma.

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Il primo “cantautore” era Gianni Meccia, guarda caso anche lui oggetto di un’invettiva, molto meno famosa e forse solo scherzosa, da parte del duo Claudio Bisio-Rocco Tanica che in una loro dimenticabile canzone lo apostrofarono con un “Odio Gianni Meccia e gli darò la caccia”.

L’uomo che perde i pezzi dice la sua.

2012-BEPPE-GRILLO-M5S-300x200I 10, o 12, o n largamente superiore a 0, “franchi tiratori” od “obiettori di coscienza” che hanno contribuito non tanto all’elezione di Pietro Grasso a Presidente del Senato, ma alla mancata vergogna morale e iattura politica di una rielezione dello Schifoso Schifani (nomen omen sine ulla dubitatione) tutto devono sentirsi meno che “traditori”. Eretici, gioiosi pazzi, pensatori divergenti fino all’erroneità, seduti dalla parte del torto magari sì, ma traditori no. Parola che peraltro il Cognato Beppe non ha mai nè scritto nè pronunciato ma giornalisti accidiosi ed ignavi gli hanno messo in bocca come una porzione di spinaci al bambino riottoso.

Cognato Beppe, per respirare boccate di aria buona devo quotidianamente leggere brani sparsi de “Il Grillo canta sempre al tramonto” (sottinteso: canta bene chi canta ultimo) scritto a sei mani con Casaleggio e Dario Fo, e mai vi fu più anomala e sghemba Profana Trinità di codesta, dove la forza della rivoluzione di cui tutti e tre siete artefici e testimoni riluce di una propria austera e organica luminosità.files

Mentre, mi duole confessarlo, passo ormai malvolentieri e un po’ spaventato dal tuo blog, che pavento possa contenere nuovi ukase, nuove fatwe, nuovi redde rationem, nuove santilariane invettive (che però non sono le uniche contromisure, seguono quasi sempre plateali sanzioni).

Il contributo di questi 10, o 12, o siano quanti siano, liberi pensatori ad un momento in sè già storico di questa  erigenda Terza (e spreremmo anche Tersa e Pulita) Repubblica dovrebbe se non inorgoglirti almeno indurti a maggior prudenza e temperanza. Perfino il Dio dell’Antico Testamento era meno drastico nelle sue solenni dichiarazioni.

images67Ci sono momenti in cui gli imperativi etico-morali sono categorici e prevalgono su qualunque e qualsivoglia considerazione di opportunità politica.

Una buona fetta di quei “reprobi” (chiamiamoli così tanto per raggiungere un amichevole compromesso) è stata eletta in Sicilia, dove la differenza fra Grasso e Schifani è talmente tautologica ed autoevidente che suonerebbe offensivo cercare di spiegarla. Ma altri, già autoaccusatisi con modalità da giocatore di rugby o pallacanestro (certamente non di calcio) vengono dal Lazio, dall’Emilia, a provare che gli imperativi categorici sono ormai fortissimi nella Sicilia che hai conquistato a colpi di virili bracciate ma non latitano neppure altrove.

Ora ognuno di loro potrebbe chiederti “Che fai, ci cacci?”. Anzi, dovrebbe farlo. E se lo faranno, o stanno facendolo, chiediti cosa risponderebbe loro un Papa che ti risulta esplicitamente graditissimo, e che anzi tu e Gianroberto avete quasi mediaticamente evocato in tempi non sospetti e a cui ora ti piace apparentarti. E agisci di conseguenza.tnsc-1994275405

Con immutato (anche se ogni giorno messo a dura prova) affetto.

Perdo i pezzi ma non è per colpa mia.

Un anziano autorevole avvocato palermitano mette un piede in fallo e ruzzola giù dall’autobus.

“Che facisti? Cadisti?” gli domanda un fedele amico. Mentre con un gesto virile e deciso di una mano rifiuta l’aiuto dell’amico facendo capire che ce la fa da solo, e con l’altra si spolvera il costoso cappotto (se ce ne avesse una terza avrebbe comunque da farle fare qualcosa), l’attempato legale panormita risponde con noncuranza “No, e quando mai… Io sempre così scendo…” e riprende zoppicante pesto e sanguinante il cammino, segretamente diretto al più vicino Pronto Soccorso.

Nella vita è una bella cosa sapersi accontentare. Bella? Diciamo più realisticamente una cosa comune e conveniente, bella lo è fino lì.

Parafrasando e desacralizzando la preghiera che apre tutte le riunioni degli Alcolisti Anonimi (ma che raccomanderei anche agli Astemi Con Nome e Cognome) osiamo  dire

“Cerchiamo di trovare la forza e il coraggio per cambiare quello che possiamo cambiare, la pazienza e la tolleranza per sopportare quello che non possiamo cambiare, ma soprattutto la saggezza per distinguere fra le prime e le seconde”.

Già, perchè gli alcolisti, anonimi o non anonimi che decidano di essere, devono fare i conti con una struttura di personalità che li spingerà per sempre verso la bottiglia, e il sottile sublime soave crudelissimo elementare paradosso è che solo riconoscendo questo fatto potranno coltivare qualche speranza di smettere di bere, in caso contrario passeranno la vita a sfidare la sudetta bottiglia per dimostrarle (senza la benchè minima speranza di successo) di essere più forti di lei. Ma una volta accettato quello che di loro è immodificabile, potranno concentrarsi su una miriade di altri particolari modificabilissimi che potranno tenere in scacco il proprio bisogno di dipendere e di anestetizzarsi.

Ma in realtà il concetto si può applicare a qualunque struttura di personalità, che non si può sperare di cambiare secondo le contingenze estemporanee della vita, ma tutt’al più di conoscerla ed accettarla per neutralizzarne i lati più impervi e dolorosi.

Questo blog perde pezzi, lettori, commentatori, aficionados come un albero perde le foglie.

O come Il Galantuomo di Juri Camisasca, uno di quei cantautori che oggi autoprodurrebbe i suoi demo vendendoli ai mercatini rionali e quarant’anni fa andava in diffusione nazionale su Radio 1 (altri tempi, altri contesti, altro, decisamente altro e basta là),

“come una pianta che perde le foglie – Io perdo i capelli, io perdo le dita, io perdo le gambe, io perdo il naso,  io perdo il controllo della lingua”

Quando si è perso il superfluo magari si vive una gioiosa decrescita e, debitamente dimagriti, ci si avventura per il mondo inseguendo nuove catartiche dimensioni che sembrano lì ad attenderti, e solo che non si sa bene dove si sono nascoste. Questo dannato viaggio porterà pur da qualche parte.

Nihil alium dicendum est.

Un Papa che si chiama Francesco.

A pensarci bene, è curioso e quasi imbarazzante che in otto secoli nessuno ci avesse pensato prima.

Un Papa sudamericano.

Forse le Chiese della Liberazione, che con Wojtyla e Ratzinger sono state costrette a remare controcorrente e ad essere trattate come Berlusconi tratta chiunque stia più a sinistra della Binetti, potranno rialzare la testa e portare il loro dolce messaggio di speranza e riscatto.

Un conclave da Terzo Millennio, con l’arcivescovo di New York che indice una conferenza stampa per spiegare perché ha dirottato i suoi voti sull’arcivescovo di Buenos Aires.

Il “gran rifiuto” di Ratzinger (che secondo alcuni è il suo unico merito) ci ricorda che il Papa non è tanto e solo il vicario di Cristo ma il dirigente di una multinazionale, che merita tutto il rispetto perché coagula milioni di speranze, valori, utopie ma ultimamente ha perso tantissimo appeal.

Il terzo Papa consecutivo non italiano.

Meditate, gente, meditate.

Nihil alium dicendum est.

No man’s land.

Chi abita in campagna, o in certe periferie non troppo cementificate, percepisce i segni dei cambiamenti di stagione dai messaggi che la Natura gli lancia, perché non è poi del tutto vero che la Natura sia quella incoercibile “matrigna” di cui parlava Leopardi, forse offeso per essere stato da lei trattato non benissimo.

A suo tempo mi è stato spiegato che quasi tutte le statue del Grande Recanatese sono costruite sulla sua “maschera mortuaria”, il calco che due secoli fa era d’uso fare sul viso dei freschi estinti di una certa rinomanza. E’ un po’ difficile che quel calco rendesse giustizia a com’eri fino a prima di ammalarti.1267092320707_01-300x199

“Io non ti veggio più” erano state le sue parole all’amico Antonio Ranieri, suo ospite e mecenate (e qualche impertinente sostiene anche amante, magari solo platonico). La Storia non ci tramanda frasi ad effetto, ma queste semplici parole che però nella loro semplicità commuovono e ci fanno capire come la morte sia quella “livella” di cui parlava il grande Totò. Fine della divagazione.

berna-300x225Chi non abita in campagna, a volte vede dei segnali artificiali che surrogano i ludici inseguimenti delle nutrie sul greto del torrente, o le lezioni di nuoto di Mamma Anatra alla sua covata, o le gemme verdi che si aprono e lasciano con intollerabile lentezza emergere le nuove foglie.

Ieri pomeriggio in Piazzale Picelli abbiamo visto in tanti la pista di pattinaggio completamente smontata, e il busto di Guido Picelli (colui che aveva guidato i rivoltosi dell’Oltretorrente nella più straordinaria vittoria contro le squadracce fasciste di Italo Balbo, che aveva trasvolato l’Atlantico da temerario ma “ne gh’l’eva miga cavéda” ad attraversare Ponte di Mezzo e varcare la Parma) libero da schermi e ostacoli, che poteva ancora guardare al quartiere, sospettando che neanche la nuova amministrazione che gli sembrava molto di sinistra non gli volesse più bene di quella guidata da Ubaldi e Vignali.Finalmente-girata-la-statua-di-Picelli-002

Lo smontaggio della pista di pattinaggio, unito all’estromissione del vin brulè dalle proposte gastronomiche dei bar, segna in modo inequivocabile la fine dell’inverno. Non è ancora primavera ma non è più inverno, c’è qualche pioggerellina di mezza stagione insieme alle prime frazioni di giornate luminose e serene, quando dal Ponte di Mezzo non ci sono gli Arditi di Balbo che cercano di fare un culo così alla “teppaglia rossa”, ma lo spettacolo mozzafiato delle Alpi visibilissime verso Nord e dell’Appennino che a Sud sembra subito a ridosso della città.

foto-2-300x224Ma le nuvole ti guardano ancora da lontano, e anche dopo le mattine terse e diafane riavvolgono la città per farle ricordare la sua immane distanza dalle stelle. Ti guardano severe e impersonali, ma alcune hanno delle forme veramente belle, specie quando non formano una cappa plumbea e indistinta senza contorni.

Ci si trova in una confortevole imprecisa terra di nessuno, o no man’s land che anglicizzar si voglia, e magari qualcuno (ogni giorno qualcuno in più) pensa che anche la sua vita è in una no man’s land, e magari anche l’Italia è in una no man’s land che non è più Europa ma non è ancora Africa e certamente non è mai stata America, pur con qualche goffo tentativo.invasione

Gli addetti ai lavori portano via alla spicciolata le transenne e i pezzi di tavolato che stavano sotto il ghiaccio artificiale (anche l’ultimo degli addetti ai lavori a casa ha qualcuno che l’aspetta). Si contano gli esercizi commerciali circostanti al piazzale che non sono sopravvissuti all’inverno (La Gabbia e il bar Gianni cambiano gestione, forse ragione sociale e certamente la loro logica di interfacciarsi col quartiere come punti di aggregazione prima che esercizi commerciali, il dialetto retrocederà da lingua ufficiale a codice segreto per pochi eletti ma solo i reazionari se ne potranno lamentare ad alta voce e con tono polemico).

L’Oltretorrente si stiracchia, guarda un po’ preoccupato la Parma ipertrofica ma ancora ben sotto gli argini (da quella parte le case sono a ridosso dell’acqua, non c’è tutta la strada in mezzo) e si prepara a una nuova primavera.

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Se una canzone ti insegue c’è poco da scappare.

Camminavo vicino alle rive del fiume nella brezza fresca degli ultimi giorni d’inverno e nell’aria andava una vecchia canzone e la marea danzava correndo verso il mare. A volte i viaggiatori si fermano stanchi e riposano un poco in compagnia di qualche straniero. Chissa dove ti addormenterai stasera e chissà come ascolterai questa canzone. Forse ti stai cullando al suono di un treno, inseguendo il ragazzo gitano con lo zaino sotto il violino e se sei persa in qualche fredda terra straniera ti mando una ninnananna per sentirti più vicina. Un giorno, guidati da stelle sicure ci ritroveremo in qualche angolo di mondo lontano, nei bassifondi, tra i musicisti e gli sbandati o sui sentieri dove corrono le fate. E prego qualche Dio dei viaggiatori che tu abbia due soldi in tasca da spendere stasera e qualcuno nel letto per scaldare via l’inverno e un angelo bianco seduto alla finestra.

Ci sono canzoni che ti inseguono per tutta una vita (questa, nella migliore o peggiore delle ipotesi, mi accarezza e/o perseguita da un ventennio scarso).

E se ti inseguono cosa vuoi fare? Dir loro “Canzoni che mi fate stare un po’ bene un po’ male, potreste sparire nel dimenticatoio o nella peggiore delle ipotesi risovvenirmi (diciamo) quelle 2-3 volte all’anno che non si negano neppure a “Finché la barca va”, magari nella versione postpunk degli Ustmamò?”?

Seh. Le canzoni stan lì ad ascoltarti. Se la fanno addosso appena ci parli. Loro corrono parzialmente libere nell’aria e quando trovano la povera vittima le si incollano addosso come mosche di inizio autunno.

Questa però ha una tirannia dolce e tollerabile: come quasi tutte le canzoni dei Modena City Ramblers prima maniera (quelli con Cisco Bellotti, Luciano Gaetani e il troppo presto dimissionario Alberto Morselli, una delle voci più strepitose della musica mondiale), quelle successive sono carine ma leggermente troppo didascaliche per i miei gusti.

E questa canzone, come tutte le prime dei geniali sassolesi, parla di tante cose insieme senza darlo ad intendere: del succedersi delle stagioni; del fascino del vagabondaggio, reale e metaforico, che è implicito nella loro denominazione; {da qui in poi i significati son tutti tuoi e Cottica & C. non hanno alcuna responsabilità. Sono cose tue} e della fine giusta e razionalmente accettata, ma emotivamente forse devastante (perché sto dicendo “forse”?) di una storia di qualche anno fa.  A ogni fine inverno ti pugnala con amore. Ma anche a ogni fine estate.

 

L’8 marzo di Paolo ed Eufemio.

heart_stopping_sandwiches_02Certe mattine in bottega c’era ben poco da fare: passati quei due-tre studenti che si compravano la merenda (e certi che a occhio andavano ancora alle Medie acquistavano anche delle lattine di doppio malto che Paolo, in assenza all’epoca di regolamentazioni legislative in merito, gli lasciava comprare sperando almeno, povero illuso!, che le bevessero dopo pranzo) almeno fino alle dieci e mezzo-undici non c’era caso che passasse nessuno.

Allora, quasi convocato medianicamente, compariva Eufemio col giornale che sosteneva di aver comprato ma si capiva benissimo che l’aveva pescato in un campanone dei rifiuti e a volte era anche del giorno prima (“E lo so che è di ieri, e alòra? Si vede che l’ho comprato ieri, tanto le notizie non le so ancora…”).cantarelli-peppino

Si appoggiava col gomito sulla teca dei formaggi e cominciava la lettura, mentre Paolo buttava un occhio ai titoli, che da quella distanza non riusciva a leggere altro. E si susseguivano una serie di commenti di altissimo spessore intellettuale, da “Eeeeh!” a “Mo di’ veh…”; da “Hai visto che lavoro?” a “Ma questi qua la vergogna dove l’han messa?”; da “Ma andate a lavorare” a un definitivo tombale “Se andiamo avanti così, io non lo so…”.

Esercitato così il proprio sacrosanto diritto ad un dissenso critico e pienamente argomentato, abbandonavano l’esoterico infido mondo della politica e si avventuravano in considerazioni sulle quali avevano quel minimo sindacale di cognizione diretta.

Duomo_e_Battistero_di_Parma“Ma te lo sai che giorno è?”.

“E che giorno vuoi che sia, zucca vuota? E’ lunedì.”.

“Non dico il giorno della settimana, lì ci arrivo da me anche se per me domenica e lunedì non hanno quella gran differenza. Dico la data.”.

“Oh Signor… Spettanàttimo, se due domeniche fa che ho visto la partita era il 28 febbraio, 29, 30, 31, 1, 2, 3, 4 e 5. E’ il 5 di marzo, se la matematica non è un’opinione.”.

“La matematica non è un’opinione sempre ammesso che te ne sai qualcosa, però a casa mia febbraio ha 28 giorni, a casa tua non so mica. E quindi a casa mia è l’8 di marzo. Lo sai che data è?”.s-croce

“E certo che lo so, c’è pure la canzone dei Nomadi C’era una data, l’8 di marzo che lui ammazza quello che gli aveva gussato la morosa.”.

“No veh, quello è l’8 di maggio e non c’entra niente. L’8 di marzo non ti dice niente?”.

I quattro colossali panini che Paolo stava compilando per Eufemio rischiarono seriamente di essergli consegnati in anticipo con l’anomala modalità del corpo contundente (e avrebbero fatto malissimo perché erano sul mezzo chilo a testa al netto della farcitura). Lo trattenne il pensiero di tutto quel ben di Dio sprecato per niente. Quindi non rispose nulla nè ce n’era bisogno, perché l’interrogativo di Eufemio aveva tutti i crismi della domanda retorica.piu-di-20-panini-diversi

“E’ la Festa della Donna oggi, Candiani, una giornata decisiva per le sorti dell’umanità.”.

“E dici bene te, le donne. Ma io dopo che è morta la Francesca non distinguo più una donna da un termosifone.”. Non era vero, certi giovedì pomeriggio che la signora Irina veniva a far le pulizie e lui trambuclava in casa la guardava con una certa attenzione e gli scappava di immaginarsela nuda, o almeno in bikini, poi si dava del porco da solo ma era più forte di lui.

sfida panini 5“Ma alla Francesca non hai mai regalato un mazzetto di mimose?”.

“Ma sai, lei ne comprava un bel cioppone già un paio di giorni prima per regalarne qualcuna alle rezdore, e ne teneva un mazzetto per lei, un anno le ho regalato una scatola di cioccolatini ma poi lei aveva paura di ingrassare e li avevo mangiati tutti io. Ma c’era sempre qualcheduna che non voleva il regalo e si offendeva, ma se te la devo dir tutta non ho mai capito il perché. La Francesca aveva anche cercato di spiegarmelo ma quel momento lì c’era la partita su Sky e non avevo ascoltato.”.

“Guarda, stamattina in sala d’aspetto c’erano quattro tipe di Napoli, o forse di Roma che poi magari venivan da Bari, che dicevan su delle robe che loro non si sentivano una specie protetta, e che le donne ne san più dei maschi, e tutti quei ragionamenti che nessun uomo s’attentava a contraddirle che poi magari han ragione loro, che in casa mia comandavano mia madre e mia sorella grande e il babbo contava come il due di bastoni quando briscola è denari.”.

“Non per offendere nessuno, Femio, ma non è che tuo padre buonanima fa testo, il mio quando parlava non sentivi volare una mosca e la mamma diceva sempre Hai sentito cos’ha detto il babbo? Scolta e impara…“.heart_stopping_sandwiches_05

Eufemio accusò il colpo ma evitò di replicare perché nessun gatto randagio graffierebbe colui che gli sta preparando il mangiare per un paio di giorni almeno (ai quattro paninoni già completati si stavano aggiungendo diverse vaschette di sottaceti e un sacchetto di fondelli di salume e gli si incrociavano gli occhi per la goduria). E quindi cambiò discorso sagacemente e disse con assoluta noncuranza: “Ma te lo sai che c’è qualcuno che sostiene che in realtà le donne dovrebbero essere il sesso dominante, mi sembra di aver sentito che si dice a quel modo lì, e che l’uomo non se ne dà per inteso e anzi si incarognisce e per la rabbia diventa violento?”.

“Ma poi alla fine se ne senton dire di ogni, ci credi te che Grillo fa un movimento e magari nel 2013 quasi vince le elezioni, beh c’è gente qui in bottega che dice anche questo e non han bevuto… Io so che una donna non si picchia gnanche con un fiore, al massimo al massimo la mandi a cagare a parole che quello secondo me si può fare.”.

“Ma la cosa che mi fa più ridere è che molte lo sai come festeggiano? Vanno a vedere gli spogliarelli dei maschi e poi ci infilano 50 euro nel perizoma, che quelli guadagan di più con le mance che di paga-base.”.8 marzo

“Secondo te… Ma fan delle robe che se le facesse il marito gli toglierebbero la parola per due giorni… sempre che lo vengono a sapere. E perché lo fanno?”.

Mentre Paolo infilava nel sacchetto di plastica non biodegradabile un monumentale culo di mortadella leggermente rancido e proprio per questo di totale sicuro gradimento di Eufemio e dei suoi amici della stazione (quelli che in realtà l’ultimo treno l’avevano preso almeno due anni fa) cercò una risposta a quella domanda, che peraltro aveva fatto lui stesso ma alla quale il più disincantato Eufemio non aveva alcuna intenzione di abbozzare risposta alcuna.

E si chiese se qualche volta la Francesca avesse fatto sul giovane idraulico che veniva spesso a sistemare le tubature le stesse fantasie che lui faceva sulla signora Irina. E gli venne un po’ di tristezza.

Considerazioni sparsissime sull’8 marzo.

Questo filmato vi costringerà ad un passaggio in più per squallidi motivi di diritti e rovesci ma vi giuro che ne vale la pena. Con osservanza.

Una barista, alla Croce di Casalecchio, ha messo fuori un cartello che sopra c’è scritto Sono allergica alle mimose. (Paolo Nori)

“Ne me quitte pas”.

In questa canzone del sovrumano Jacques Brel, e nel modo magistrale in cui la interpreta, vocalmente gestualmente ed emotivamente, c’è tutta la profonda dipendenza del Maschio dalla Femmina.

Se fossi un intellettuale minimalista (ma per fortuna o per somma disgrazia non sono nessuna delle due cose) potrei concludere qui il mio post.

Le vedove vanno in crociera, scrivono romanzi, ricontattano vecchie amiche, moltiplicano l’impegno coi nipoti se ce ne sono, ringiovaniscono, rinnovano il guardaroba,  vedono l’idea di rituffarsi in una relazione di coppia come una bizzarra eventualità sostanzialmente inverosimile.

I vedovi implodono, s’afflosciano, vivono di rimpianti, recriminano, se la prendono col Padreterno e a volte anche con l’estinta (“Ma non potevi aspettare che me ne andassi io, benedetta donna?”) ma poi si riaccoppiano con allarmante velocità.

E’ un dato obiettivo (ma tenuto nascosto ai non eruditi) che, nell’evoluzione genetico-culturale (che riguarda tutti i mammiferi, non solo la bizzarra specie Homo Insipiens) il maschio, trombando a destra e a manca innumerevoli femmine, ha la meglio nel trasmettere i caratteri somatici ma la femmina, interessandosi in modo intensivo ed esaustivo di una cucciolata alla volta, è la responsabile unica (in tutte le specie salvo l’Homo Insipiens dove il babbo cerca di prendersi le sue responsabilità quando può e come può) nel trasmettere i caratteri culturali che nell’echidna e nell’ornitorinco forse hanno una valenza relativa, ma dal formichiere in su hanno la loro importanza.

Da qui a dire che la donna custodisce con pudore e quasi segretezza un patrimonio di intelligenza e saggezza che l’uomo si sogna (ammesso che la desideri e voglia metterla al posto delle proprie derive impulsivo-narcisitiche) ci passa lo spazio di una rapida, per qualcuno dolorosa, presa di coscienza.

Sulla vita del paleolitico non esistono filmati su Youtube, ma i paleontologi deducono e desumono plausibilmente che mentre i maschi andavano a vedere se potevano cacciare la tigre dai denti a sciabola o se era semmai lei a cacciare loro (e partivano sui 90 chili e tornavano a 57-58) le donne restavano in caverna a trasmettere usanze, costumi e forse qualcosa che già allora si chiamava  “valori”.

Nel rapporto uomo-donna questo nefasto conflitto fra ottusa forza fisica e profonda forza intellettiva resta ancora operante. E nei tempi, le donne intellettualmente e (orrore!!) sessualmente libere sono state bruciate al rogo come streghe o bollate come “puttane” (senza minimamente pensare che una vera prostituta è la negazione vivente della libertà sessuale, e che se   mai tanti se non tantissimi  “felici matrimoni” sono basati su modalità prostitutorie di puro tornaconto economico).

Io non regalerò mimose.

Ma cercherò di capire quanto  mi separa da una accettabile comprensione della psicologia femminile, che banalizzazioni pressapochistiche possono etichettare come “complicata”, ma che in realtà è semplicemente inequivocabilmente e irreversibilmente un po’ più “complessa” di quella in cui il maschio italiota vive affondato come un allegro maialino nella sua leggiadra porcilaia. E dalla quale evita di uscire non volendo passare per gay.

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Se si ritorna significa quanto meno (a) che si hanno ancora gli strumenti dinamici per trasmigrare da un punto all’altro e (b) che si possiede ancora una mappa. Ma pensandoci meglio il punto (b) può essere omesso, delle volte si ritorna per puro caso e, dopo aver detto “Ma dài…” si decide di trattenersi. Quanto a lungo non si sa.

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