Between nothingness and eternity
Siamo stanchi di ritrovarci solamente a dei funerali
(Claudio Lolli, Piazza bella piazza, 1976).
Diceva bene Don Aldo Pettenati, parroco di Medesano proprio in quegli anni, “Adesso voglio fare solo matrimoni e battesimi, i funerali mi han fiaccato!”.
Però questo ritrovarci, commossi ma comunque con una strana allegria che stempera il dolore, al passo d’addio di tanti amici che hanno smesso il vizio di respirare, da Enzo a Franco, da Anna a Rossella, da Franca a Stefano, da Margherita a Vincenzo, è una doverosa e in fondo quasi grata testimonianza dalla quale non ci si può e non ci si vuole esimere.
Quando tu stesso cominci ad avere un’età che ti colloca nel girone discendente della vita e ogni giorno one day closer to death, come scriveva un appena ventottenne Roger Waters e cantava il suo coetaneo David Gilmour, ti rendi conto che la Terra è un centro di smistamento fra il Nulla e l’Eternità.
Che ci sia o non ci sia un Paradiso e se c’è come può esser fatto lo lasci scoprire ad Eufemio Torelli vagabondo delle stelle del terzo millennio. Ma indipendentemente dai misteri teologici, chiunque lascia eredità d’affetti nel morire in qualche modo si eterna in un ricordo che è giusto che sfumi (o entri tout court) nella leggenda.
Vincenzo Cerami ha attraversato con sfrontata allegria quarant’anni di storia culturale italiana profondendo a piene mani oceani di talento sia a chi ne aveva di suo che a chi di suo ne aveva poco, ma con la sua diabolica capacità narrativa si trovava esili soggetti tramutati in corposi compendiosi copioni. Un po’ come Ennio Flaiano (anzi, molto come Ennio Flaiano) pur essendo un eccezionale scrittore ha ottenuto la massima visibilità attraverso quell’affascinante donna di facili costumi che è e sempre resterà il cinema italiano.
Allievo di Pasolini (anche nel senso etimologico del termine, Pier Paolo fu un suo professore) ha fatto pezzi di viaggio con Monicelli, Citti, Bellocchio, Nuti, Bertolucci (Giuseppe però, non Bernardo che se no avrebbe la casa piena di Oscar), Benigni, Scola, Albanese e, buon ultimo, il figlio Matteo.
Con nessuno di loro ha mai brillato di luce riflessa. E non c’è bisogno di dire altro.
In appendice, inserisco uno stralcio di Uomo d’acqua dolce, memorabile esordio cinematografico di Antonio Albanese come regista, in cui un soggetto abbastanza mingherlino leggerissimamente scopiazzato dal Fu Mattia Pascal evolve, con la sapiente mano di Cerami (e, perché no, le splendide musiche di Nicola Piovani) in un film di strana enigmatica bellezza.
La sliding door di tutte le sliding doors (sottotitolo “Sono solo sottilette”).
La prima sliding door è una meta-sliding door, la sliding door di tutte le sliding doors, la scelta della mamma e del papà.
Sto scherzando, naturalmente. I genitori non si scelgono, anche se sarebbe bello guardarli dall’alto nei giardini della pre-esistenza e dire “Scelgo quei due”. Sulla variabile che avrà il peso più decisivo e invincibile sulla tua vita, sulla formazione della tua personalità, sulla fitta e subdola rete di credenze e abitudini automatiche che ti renderanno quello che sei, nessun essere umano ha la minima scelta. Salvo qualche bambino adottato, che può ritirarsi inorridito di fronte ad aspiranti genitori che gli trasmettono quantità industriali di cattive vibrazioni e dare invece la mano sicuro e sorridente dicendo “Portatemi a casa” a chi gli promette accoglienza ed amore, sempre sperando che non si metta di traverso qualche assistente sociale o psicologo decerebrato a far valere le sue risibili opinione contrarie.
Se avessi visto dall’alto Tonino e Lauretta non so se li avrei scelti.
Ci sono delle foto dei primi anni ’60, che ho fatto in modo di perdere, smarrire, abbandonare (ma mai esplicitamente e intenzionalmente distruggere, si vede che c’è un limite a tutto) in cui si vede Lauretta che sorride trionfae e rilassata, e il piccolo Luca con un musetto pensieroso e un po’ malinconico come se gli sfuggisse qualcosa, come se si trovasse in un gioco che alla mamma piaceva tantissimo e a lui così così.
Il piccolo Luca era nato dopo quattordici anni di inutili tentativi, durante i quali Lauretta era riuscita faticosissimamente ad iniziare due gravidanze abortite spontaneamente e precocemente.
Solo ben dopo i vent’anni, ormai sposato e padre a sua volta, aveva ricostruito con metodologie ipotetico-deduttive il gioco grande e strano della sua venuta al mondo: la biforcazione fra Lauretta, che aveva sposato il cugino Tonino non perché lo amasse esageratamente, ma perché la sua delicata storia di “figlia di madre nubile” (qualcosa di terribilmente scandaloso e doloroso nell’Italia, cattolica e pronta ad accogliere il fascismo, del 1921) le aveva indotto una fobia per “gli uomini venuti da lontano” che metteva in scacco qualunque altra considerazione; e Tonino, selvaggiamente innamorato di Lauretta fin dalla tarda infanzia in un modo che, anche per lui, metteva in scacco qualunque altra considerazione.
La venuta al mondo del tenero, inconsapevole, innocente Luca che non aveva chiesto nulla e non sapeva e non avrebbe voluto sapere nulla avrebbe creato un particolare e un po’ anomalo triangolo edipico: il nuovo arrivato rimpiazzava spietatamente Tonino nel cuore di Lauretta, e diventava per Tonino un terribile impiccio, con vissuti da parte sua di terrificante ambivalenza verso un figlio che stuzzicava il suo orgoglio narcisistico ma, simultaneamente, lo privava (e ben più di quello che il buon Tonino avrebbe potuto immaginare) dell’amore di Lauretta.
Quante altre se ne potrebbero dire, affabulando e confabulando. Ma per ora fermiamoci qui.
Quanti anni erano che non mi fermavo a Bologna?
Il 5 marzo 2012 scrivevo:
Post soggettivo e discutibile su Lucio Dalla.
Spero che anche per Lucio valga lo stesso principio che avevo enunciato per Oriana Fallaci: le virate a 90 gradi post mortem lasciano il tempo che trovano. Quindi chi in vita l’ha trovato un opportunista e un cialtrone può tranquillamente disertare questo post.
Quanti anni erano che non mi fermavo a Bologna? La prima risposta sarebbe: febbraio 2007, quando lavoravo senza successo e convinzione alcuna per una grande compagnia telefonica in attesa di trovare di meglio, e avevo partecipato ad una grande convention della zona nord-est (nella quale Parma rientrava come estrema propaggine occidentale mentre i piacentini si convenzionavano a Milano). Ma quella volta ero letteralmente passato dalla stazione alla sede della convention (di cui neanche ricordo più l’ubicazione) e ritorno.
Allora retrocediamo alla primavera 2003, quando ero passato in Via Maggiore sede dell’Ordine degli Psicologi e poi avevo fatto due passi a piedi per le vie del centro perché di ritornare a Sesto San Giovanni (dove allora abitavo) non è che avessi una voglia sconfinata.
Saltiamo a pie’ pari la Festa Nazionale dell’Unità del 2000 che era in un non-luogo genericamente emiliano lungo la Via Emilia a rubare l’egemonia a Reggio e Modena.
Erano almeno 15 anni che a Bologna non passavo una giornata intera dal mattino al tramonto. E anche se me lo aspettavo, ho cercato senza trovarla la Bologna che mi sembrava di ricordare (lo so che sembro il pensionato di Guccini, ma sto già quasi per cambiare argomento e quindi abbiate pazienza…) per ritrovarla tutta più inutilmente veloce ed isterica anche di domenica, più diffidente e spaventata, più indifferente e maleducata. Probabilmente un cambiamento meno vistoso di quello addirittura terrificante che ha attraversato Parma nel medesimo lasso di tempo, ma lì (come dire) me lo sono sorbito a piccole dosi assuefacendomi poco alla volta.
E rispetto a Roma che è Eterna per definizione, Bologna è laicamente affondata nel tempo e nella storia, e quindi alla fine è sempre comunque bellissima di quella sua bellezza pudica e distratta. E sicuramente non lascerò passare altri 5 anni prima di tornarci, anche perché di quinquenni non è che me ne resteranno tanti.
“L’importante è non arrivarci in fila, ma tutti quanti in modo diverso. Ognuno con i suoi mezzi, magari arrivando a pezzi.”
La mia scelta personale è stata di incamminarmi lentamente in una Bologna ancora semiaddormentata dalla stazione a Piazza Maggiore, per rendermi conto di quali scherzi strani gioca la memoria (specie quella spaziale, presieduta dall’emisfero destro, rispetto alla quale ho sempre avuto delle imbarazzanti falle).
Comunque sia, non mi andava di imbarcarmi in comitive del dolore legate magari da una finta fratellanza alimentata solo da una curiosità un po’ patologica.
E ho regalato a, o mi sono fatto regalare da, Bologna la stessa medesima gioiosa orgogliosa solitudine che ha percorso la mia recente permanenza a Roma.
Mentre le fallacie della mia memoria mi facevano sfiorare un paio di volte Piazza Maggiore senza raggiungerla, cresceva sempre di più la differenziazione fra l’adempimento doveroso verso l’amico di sempre (anche se frequentare camere ardenti e funerali cattolici non è tra i tuoi greatest hits personali) e un qualche scombiccherato tipo di itinerario medianico ed erratico in cui la compagnia delle tue emozioni e dei tuoi pensieri ti basta e ti avanza.
“Siamo noi, siamo in tanti, ci nascondiamo di notte per paura degli automobilisti, dei linotipisti, siamo i gatti neri, siamo pessimisti, siamo i cattivi pensieri…”
Eppure c’era un paradosso grosso come una casa: per quanto gloriosamente solitario mi volessi sentire, ero lì perché facevo parte di un popolo. Che non era il popolo nomade platealmente rivendicato dall’omonimo gruppo, e del quale faccio senz’altro parte da una quarantina d’anni. Era qualcosa di molto diverso. E’ qualcosa di molto diverso che avrei capito meglio arrivando in Piazza Maggiore.
All’amico di una vita perdoni tutto: l’appoggio a Guazzaloca, l’appoggio all’Opus Dei, canzoncine come “Ciao”, “Attenti al lupo” e last but not least i suoi impresentabili parrucchini.
Più che perdonare, cerchi di capire le sue contraddizioni che forse discendono da una personalità non banale dietro l’apparente semplicità.
Semplicemente, c’è una sintonia più di tipo emozionale che di tipo estetico per cui quello che lui produce ti piace a prescindere, anche se solo qualcosa ti entusiasma davvero fino in fondo.
“E’ una sera così dolce che si potrebbe bere, da passare in centomila in uno stadio, è una sera così grande e profonda che lo dice anche la radio, anzi la manda in onda…”.
Per uno strano mistero relativistico, senza che si percepissero quelle che prima chiamavo “processioni del dolore” in giro per Bologna, alle 10.30 la piazza è già piena. E’ piena di una bizzarra collezione trasversale che incrocia le generazioni, le classi sociali, le convinzioni religiose e politiche, la provenienza geografica. Una buona metà dei presenti viene da fuori Bologna e qualcuno anche da fuori Italia. Come se Lucio in 50 anni di carriera (cominciata accompagnando Edoardo Vianello come clarinettista dei Flippers e conclusa accompagnando come direttore d’orchestra-corista l’ennesimo giovane talento) avesse saputo intercettare gli umori della gente comune, in questa sua dimensione gramscianamente popolare alla quale tanti colleghi cantautori eletta schiera, pur avendo letto Gramsci più volte, non sapevano assurgere.
Alla fine siamo almeno in 40.000, che è la stima più prudente fra quelle tentate dai giornali di stamattina.
L’ultimo funerale a cui ho partecipato risale al 2006. Un funerale di paese, e non importa specificare chi fosse il deceduto. Allora, come ieri, ho vissuto il crocevia doloroso ma alla fine indispensabile di quando ci si ritrova e in un certo senso ci si confronta rispetto a quello che resta un mistero, tanto per chi crede o per chi non crede, o per meglio dire per chi crede a modo suo (perché secondo me neanche l’uomo più ateo e laico non si interroga mai sugli aspetti trascendenti della vita).
I partecipanti a quel funerale li conoscevo quasi tutti, mentre ieri non ho incontrato nessuno che conoscessi.
Ma ieri come allora, ho sentito fortemente (pur nell’assoluta certezza che non esista alcuna vita dopo la morte, che è la rassicurazione che tutte le religioni danno a chi è talmente orgoglioso da non saper accettare la sana, fisiologica, quasi serena fine della propria esistenza individuale) che Lucio come essere individuale si era frantumato in milioni di minuscoli frammenti energetici (parecchi dei quali non possono non essere rimasti a Montreux capitale europea del jazz, che è stata una buona alternativa al “morire in Piazza Grande” tra tutti coloro che non hanno padrone) che rimanevano a disposizione di chi riusciva ad afferrarli.
Solo scherzando posso immaginarmelo trasformato nell’angelo di una sua famosa canzone che, accolto da Dio con fare brusco (“Cosa vuoi da me tu?”) una volta libero di svolgere le sue funzioni di angelo piscia in testa ai vanagloriosi potenti della terra per concludere, molto laicamente se vogliamo, che “gli angeli sono milioni di milioni e non li vedi nei cieli, ma tra gli uomini sono i più poveri e i più soli, quelli presi nelle reti…”.
Mentre lo portavano via da San Petronio a spalla i 4 amici con gli occhi rossi non avevo dubbi che Lucio come essere consapevole e senziente ormai non esisteva più.
Ma per tutti coloro che continueranno a volergli un acritico bene (e io sono tra costoro) sarebbe riduttivo dire che Lucio non c’è più. C’è molto più fortemente di prima e si consegna ipso facto alla leggenda.
Non c’è alcun motivo razionale per riproporre oggi questo post, ed è proprio per questo che lo ripropongo. Insieme a questa canzone che ha il potere di commuovermi, sistematicamente, fino alle lacrime.
E vanno via e non tornano più.
Vanno via e non tornano più; non danno neanche il tempo di chiamarli. E non lasciano niente, non scrivono dietro il mittente.