Buon compleanno Rino.
Molte morti hanno un significato provvidenziale: chi riuscirebbe ad immaginare un Jimi Hendrix 70enne che si addormenta a metà svisata? Un Brian Jones obeso e calvo che biascica di fronte a un giornalista della Bbc? Una Janis Joplin rifatta maldestramente da un chirurgo plastico, e forse di plastica, di Milwaukee? Un James Dean che nel ritirare l’Oscar si agita troppo e gli casca il catetere?
Ovviamente solo le persone affette da delirio mistico credono che esista una provvidenza a priori. Ma spesso, negli eventi più o meno nefasti (che hanno una maggiore incidenza statistica rispetto a quelli lieti) si riesce a riconoscere in trasparenza una qualche provvidenza a posteriori.
Ci sono dei Peter Pan che umanamente non possono invecchiare. In un mondo magico, queste strane creature potrebbero cristallizzarsi fra i 25 e i 35 anni, o magari potrebbero anche vivere alla rovescia come dei Beniamini Bottone alla ricerca della propria Asola. In un mondo che è sempre meno magico, queste persone trovano il modo di scomparire prima che avvenga l’irreparabile.
E Rino, che oggi compirebbe i maccartneyani (ma anche cuginidicampagneschi) fatidici 64 anni mentre si schiantava contro un camion deve aver pensato che era meglio così, che non è sufficiente sopravvivere a sè stessi.
Poi, si sa, quando si passa dalla vita concreta a quella simbolica c’è chi (purtroppo per lui e senza sua colpa) davvero muore e scompare. E chi comincia una vita eterna che non è quella che ci insegnavano a dottrina, ma è l’accumulo glorioso della memoria e del mito che può davvero protrarsi nei secoli dei secoli.
Mario Martone, per me è un sì. [Sottotitolo: Elio (Germano) e una storia tesa].
– GIACOMO LEOPARDI, dal DIALOGO DELLA NATURA E DI UN ISLANDESE-
Credevi tu forse che il mondo fosse fatto per causa vostra? Ora sappi che nelle fatture, negli ordini e nelle operazioni mie, trattone pochissime, sempre ebbi ed ho l’intenzione a tutt’altro che alla felicità degli uomini o all’infelicità. Quando io vi offendo in qualunque modo e con qual si sia mezzo, io non me n’avveggo, se non rarissime volte: come, ordinariamente, se io vi diletto o vi benefico, io non lo so; e non ho fatto, come credete voi, quelle tali cose, o non fo quelle tali azioni, per dilettarvi o giovarvi. E finalmente, se anche mi avvenisse di estinguere tutta la vostra specie, io non me ne avvedrei.
Era parecchio tempo che un film non mi emozionava e coinvolgeva tanto da sentire la voglia di condividere emozione e coinvolgimento con chiunque avesse la voglia di starmi a sentire. C’era andata molto molto vicina “La grande bellezza”, ma poi aveva prevalso un apprezzamento estetico intellettuale della ricchezza e complessità dell’affresco. Come dire, ero rimasto affascinato ma non emozionato. Che nell’asfittico panorama del cinema di questi ultimi anni era già un bel risultato, ma non abbastanza.
Nel prendermi su e andare al cinema per vedere “Il giovane favoloso” mi spingeva più una malevola curiosità che un vero sincero autentico desiderio. Non so perché ma mi veniva in mente l’unico totale flop della carriera cinematografica di Roberto Benigni, quando il grande pratese (nell’occasione ridotto tutt’al più a “prataiolo” indigesto e leggermente tossico), travolto dall’hybris, si era voluto confrontare con la saga di Pinocchio e, dopo aver illuso e sedotto lo spettatore con una strepitosa scena iniziale, lo abbandonava ad un film banale, esteriore, plateale e prevedibile, con svariate punte di imbarazzante squallore.
Così temevo (o maliziosamente speravo?) per la pretesa di Mario Martone di confrontarsi con il più grande colosso intellettuale prima che artistico, etico prima che culturale, da Dante Alighieri in poi. E, se vogliamo, con un luogo che galleggia in uno spazio extraterritoriale fra la geografia, la storia e il puro e semplice mito: la metafisica eppure umanissima, leggendaria eppure terrena, quella Recanati, che va guardata da lontano e in prospettiva quasi per non sgualcirla. A non stare attenti si resta maciullati.
E invece il triplice salto mortale carpiato avvitato rovesciato con contorsione del menisco è riuscito.
Siccome sono uno spettatore e non un critico, mi sono insufficienti gli strumenti analitici attraverso i quali il cinefilo professionista incasella, denota, connette, spiega ed argomenta.
Ma abbondo invece, né la cosa ha nulla di straordinario, degli strumenti sintetici attraverso i quali la persona comune di sufficiente cultura metabolizza, assimila, associa, si emoziona e al limite si commuove, ricorda, ed è come se l’inconscio dell’autore passasse sopra al suo, come un delfino che ti sfiora al largo e ti fa pensare all’infinito, o anche all’Infinito.
Il film che stavo guardando era una ricostruzione storica e filologica pressoché perfetta, che a costruirsi un Leopardi di pura fantasia ci riuscirebbero anche i Vanzina, la quasi totalità delle battute era mutuata quasi parola per parola dall’Epistolario e dallo Zibaldone, e le più belle pagine poetiche (che potevano essere declamate da una voce fuori campo con toni alla Arnoldo Foà) erano “dette”, come nell’atto stesso di pensarle e scriverle, da Giacomo stesso.
Il tutto poteva risultare una splendida operazione documentale, una docufiction credo sia il termine à la page, da far vedere nelle scuole più o meno come sta capitando per il film precedente di Martone, Noi credevamo, un riuscito tentativo di parlare degli albori del Risorgimento dal basso e da dentro piuttosto che dall’alto e da fuori.
Ma qui si innesta l’elemento cardine che aiuta il film a transumare dal documentaristico al commovente: l’incredibile sinergia fra il regista e un attore finora sottovalutato, preso sotto gamba e trattato con paternalistica sufficienza (cosa che toccò, peraltro, anche a tal Stefano Accorsi nella prima parte della sua splendida carriera).
Elio Germano.
Con quale stanislavskijana ostinazione Elio è diventato Giacomo, con quanto appuntito amore lo ha rappresentato nel suo progressivo curvarsi, piegarsi, alla fine letteralmente accartocciarsi su se stesso sotto il peso simultaneo dei mali fisici e delle sottili inquietudini che non possono non scaturire da una totale acuminata spassionata percezione della disperata paradossalità della condizione umana.
E poi, almeno due scene che da sole valgono il prezzo del biglietto:
- Giacomo che subisce una sorta di “processo controproletario” da parte del padre e dello zio con tutte le stimmate tecniche dell’induzione di un doppio legame patogeno*, dopo un tentativo di fuga goffo e disperato, in cui un superficiale e ipocrita linguaggio dell’amore si interfaccia con un più profondo linguaggio implicito della sopraffazione e dell’intolleranza e reagisce allucinando il grido di protesta che mai potrà o vorrà esplicitare né allora né mai più.
- Il dialogo fra un Islandese e la natura, la più disperata ed estrema delle Operette Morali, che diventa un dialogo fra un Giacomo schiacciato dal grandangolo e una enorme inquietante statua di sale a forma di madre.
Mario Martone, per me è un sì a tutti gli effetti.
*Il doppio legame indica una situazione in cui la comunicazione tra due individui uniti da una relazione emotivamente rilevante, presenta una incongruenza tra il livello del discorso esplicito (verbale, quel che vien detto) e un altro livello, detto metacomunicativo (non verbale, gesti, atteggiamenti, tono di voce), e la situazione sia tale per cui il ricevente del messaggio non abbia la possibilità di decidere quale dei due livelli ritenere valido (visto che si contraddicono) e nemmeno di far notare l’incongruenza a livello esplicito. Come esempio Bateson riporta l’episodio della madre che dopo un lungo periodo rivede il figlio, ricoverato per disturbi mentali. Il figlio, in un gesto d’affetto, tenta di abbracciare la madre, la quale si irrigidisce; il figlio a questo punto si ritrae, al che la madre gli dice: “Non devi aver paura ad esprimere i tuoi sentimenti”.
Il Dott. Rinaldoni resuscita (o detta il post attraverso una medium) per dire la sua sul fatto del giorno.
Io sono uno di quelli che quando Oscar Pistorius è stato condannato a 5 anni per l’uccisione della sua partner, non ha provato né dispiacere né soddisfazione. In Italia siamo bravissimi a riciclarci in pubblici e privati ministeri, giudici popolari e triviali, avvocati difensori e protettivi, feroci carnefici, facendoci allegramente la vita degli altri perché quella nostra làtita (cfr. 883).
Ma in una maniera strana, che i non italiani stentano e faticano a capire: non formandosi dei giudizi “a posteriori” come esito finale di un processo di acquisizione e confronto di informazione per costruirsi delle opinioni plausibili.
No.
E chi ce l’ha tutto quel tempo? No, dico, ragazzi, siam pazzi?
L’italiota medio parte da un’opinione (anche se in questo caso la parola risulta un po’ grossa) emotiva e un po’ isterica e poi seleziona pigramente, superficialmente ed opportunisticamente l’informazione che convalida la sua convinzione (ecco, forse la parola “convinzione” è più adatta di “opinione”).
In questo, il povero Oscar è in posizione simile a quella di Lance Armstrong, che prima sconfigge il tumore e vince 7 tour e poi si scopre che aveva imbrogliato: è uno schermo di proiezione a 360° che il cinema dinamico di Gardaland gli fa una xxxxx, su cui si possono depositare tutti i bisogni (a volte in senso davvero escrementizio) di amplificare le proprie emozioni cavalcando la vita degli altri.
Lasciamolo solo, invece. Come atto di cortesia ma forse anche come presa di distanza.
Non la Parma Voladora, ma il Baganza in libera uscita.
Per il vulcanico Alberto Padovani, che sta ai ManìnBlù come Fabrizio Tavernelli stava agli AFA, la Parma Voladora è una trasparente metafora della rivoluzione, o quanto meno della ribellione o almeno della resistenza, che si tratti di ribellarsi/resistere/rivoltarsi contro le squadracce fasciste di Italo Balbo o prendere a pentolate un’amministrazione comunale imbarazzante e impresentabile 90 anni dopo.
Di fatto, anzi, la clip che accompagna la canzone è girata in parte sulle sponde di una Parma in permesso sindacale, suta c’me na bresca (preferisco NON spiegare ai non parmigiani cos’è una bresca, come è meglio non spiegare ai non romani cos’è la pajata, se piace piace se non piace Piacenza) come a indicare che non è di una calamità naturale che si sta parlando, ma di un’onda di piena umana.
L’altro ieri invece, per la prima volta da non so quanti anni, la Parma Voladora non era una metafora, la massa travolgente d’acqua che vien giù dalla Casarola dei Bertolucci mugghiava, ribolliva, saltabeccava e dove trovava impervietà del fondale sollevava la testa in onde similmarine, come a salutare la folla che, appoggiata ai ponti, si godeva lo spettacolo orrido e bellissimo insieme.
Perchè qui in città nessuno ha paura della Parma. Sì, si fa finta pet farla contenta, perchè alla fine quanti sentimenti si fingono per carità, opportunismo o quieto vivere? Ma sono diversi decenni che nessuno è realmente spaventato.
Sappiamo che ogni tanto, un anno sì e diversi no, lei fa le sue scene da prima donna ma poi gli argini tengono,la famosa cassa d’espansione (che tutti nominano ma quasi nessuno saprebbe spiegare in modo esatto e comprensibile che diavolo è) fa il suo dovere qualunque esso sia, e la città si rilassa.
Eh, dunque sì, sì sì lo so, non suggerisca… dicesi cassa d’espansione una tipica espressione dialettale valtellinese, nononò, un mobile veneziano, anzi adesso momentaneamente mi sovviene… ecco… non lo so!!!!!!
Invece il Baganza, quello proprio non l’ha in nota nessuno. Più che attraversare e suddividere la città come fa con perfetta deontologia idrica la Parma, la costeggia stancamente per poi confluire nel nostro torrente onomastico, sembra proprio che faccia il compitino perchè gliel’ha detto la maestra ma, come dire?, senza troppa convinzione.
Ma l’altro ieri il Baganza, mentre nessuno badava a lui, preparava la sua cinica terribile vendetta. Come uno scimpanzé nei confronti di un babbuino, mentre la Parma raccoglieva quello che trovava limitandosi a portarlo in giro, ha fatto vedere di saper fare uso di strumenti.
Trovato sulle sue sponde un container abbandonato l’ha amorevolmente raccolto sussurrandogli “Rischiavi di diventare uno squallido rifugio per barboni avvinazzati e invece io farò di te un eroe. Abbandonati e fidati di me.”.
Portato in braccio dalla corrente, il contenitore metallico si è abbattuto sul ponte pedonale della Navetta. Poteva sradicarlo e proseguire la sua corsa, invece container e ponte hanno
pareggiato e il container un po’ ammaccato è rimasto avvolto in un laocoontico abbraccio con le macerie del ponticello, autorizzando gentilmente il torrentello appenninico ad una libera uscita fuori ordinanza.
Abituato a stare sempre nel suo àlveo, il Baganza in libera uscita ha trovato molto bello e comodo il quartiere Montanara, ordinato, geometrico, pulito, tranquillo dopo un passato ormai lontano di zona a rischio, ideale per farsi una bella “vasca” e studiare un po’ più da vicino questi famosi e tanto celebrati parmigiani. Che invece si sono dimostrati molto meno cordiali, accoglienti e ospitali di quanto si vociferi, dicendogliene di ogni (quel che non gli han detto se l’erano scordato).
Offeso, deluso, amareggiato il Baganza è lentamente rifluito nei tombini comunali lasciando un prezioso humus di fanghiglia e detriti anch’esso poco apprezzato dai residenti.
La màchina d’al temp – Aristodemo rapito, addotto, prelevato, levitato, convocato dal preside, insomma preso su e portato via.
[Riassunto – sommario:L’aspirante inventore Aristodemo Cavatorta invia tutto il suo caseggiato in un futuro non lontanissimo, ma abbastanza perché, se la morosa ti aspettava alla fermata dell’autobus, si sia stufata e se ne sia andata a Montecatini con quello che alle medie ti rubava le merendine. Solo che lui (nel senso di Aristodemo, non del ladro di spuntini) non si è accorto di nulla.
La màchina faticosamente assemblata da Aristodemo avrebbe dovuto produrre una bolla temporale che l’avrebbe avvolto, l’avrebbe destrutturato per ristrutturarlo con precisione esattissima nel tempo futuro voluto.
Ma, per uno di quegli accidenti che il caso spesso propone agli umani, la màchina si era messa in moto da sola per un anomalo afflusso di corrente elettrica e aveva allegramente sparso la sua furia deformatrice dello spazio-tempo per l’intero caseggiato.
I vicini non gradiscono e gli chiedono spiegazioni sui paradossi temporali intercorsi. Ma Aristodemo non sa cosa rispondere essendo ancora sotto shock. Alla fine la folla sciama delusa e il bizzarro inventore rimane solo.
Intanto i coniugi Bolsi, avvocato di successo lui e sostanzialmente ex-escort lei, escono disorientati e in stato confusionale da casa e……
si trovano proiettati in un avvenire che si presta ad una difficile decifrazione, il tutto sormontato da una enigmatica scritta nel cielo che recita Libero Ducato di Parma, 16 luglio 2079. E tanto che ci sono devono subito cavarsela con una guardia comunale, anzi in questo caso ducale, del futuro, ma in tutto e per tutto stronza e bastarda come quelle di qualche decennio prima.
I due finiscono deportati in un centro di raccolta per abusivi, mentre Aristodemo, chiuso in casa a pensare (una vita sprecata, non c’è niente da fare)riesce a capire cos’è successo. Trionfante corre in strada ma si trova davanti una folla ostile.
E anche lui deve vedersela con una feroce e vernacolare Guardia Ducale, che le Guardie Rosse di Mao in confronto erano dei boy scout in gita premio a Loreto. E sta per essere imprigionato, forse avviato alla rieducazione, eventualmente ridotto in schiavitù, fatto a pezzi dal Minotauro Ducale, sottoposto a disgregazione molecolare o (peggio di tutte le altre cose messe insieme, elevate al quadrato e moltiplicate per pi greco, rho egizio e tau fenicia) costretto a passare 20 serate con un testimone di Geova. Ma…].
Aristodemo ci mise un po’ a capire da dove veniva quella voce, troppo in alto per provenire dalla strada e troppo in basso per provenire dal cielo.
In verità la voce proveniva da dentro un bizzarro apparecchio perfettamente immobile a due metri da terra che non emetteva alcun rumore. “Antigravità. Era chiaro che ci sarebbero arrivati. Probabilmente quell’apparecchio, che è praticamente identico agli aereoplanini dei baracconi solo che sta su da solo, crea un campo magnetico altamente focalizzato, oppure emette materiale radioattivo a velocità prossima a quella della luce che genera una barriera di ioni, in entrambi i casi secondo le previsioni di Einstein la gravità viene deviata e rall…“
cercò di pensare Aristodemo, ma fu interrotto da un imperioso “SALGA A BORDO, CAZZO!!!” che gli ricordava qualcosa ma non avrebbe saputo dire cosa. E, cosa ancor più curiosa, che risuonava direttamente dentro la sua testa trascurando vezzosamente di passare dalle orecchie.
Di suo, Aristodemo sarebbe stato incline a rispondere “Con calma e per favore”, ma cominciò lentissimamente a levitare. E quando si lèvita senza esserci per nulla abituati di solito ci si concentra sul fenomeno e si omette di protestare.
Mentre ascendeva al cielo in stile resurrection shuffle, non poté comunque esimersi dal vedere, sotto di lui, la folla in tumulto muoversi sempre più al rallentatore fino ad arrestarsi del tutto. “Ma è chiaro – continuò a pensare il Cavatorta Addotto – qui c’è in ballo un flusso energetico di inusitata potenza e precisione che deforma lo spazio-tempo in senso antigravitazionale. Togo!!!”.
Il tutto assomigliava moltissimo alle riprese di un presunto sedicente rapimento alieno che aveva occupato e ammorbato tutti i canali olografici nel 2023, risultato poi un grossolano falso architettato dal tecnico degli effetti speciali della rockstar mutante Dagobert Hyde. Da quell’inconfessato teledipendente che era, Aristodemo quasi assisteva allo spettacolo dal di fuori. Solo che stavolta non sembrava logico supporre che si trattasse di una messa in scena.
Alla fine dell’abduction si ritrovò… no, miei piccoli lettori, non in una selva oscura, ma cosa avevate capito? Si ritrovò seduto al posto di comando di una piccola astronave semovente.
Che poi, posto di comando… Al brillante intuito del geniale inventore (ocio che ci crede) fu immediatamente chiaro che anche qui comandava la màchina, decideva la màchina, la màchina la feva ed testa sovva e l’uomo fischiava.
Davanti a lui c’era uno schermo da dove faceva una smorfia, che caritatevolmente rinomineremo in sorriso, un attempato gentiluomo che sembrava (dato che di lui si vedevano solo viso e spalle) vestire una felpina aderente tipo Star Trek. Usanze dell’epoca, probabilmente. Non di ottimo gusto ma chi era Cavatorta Aristodemo per criticare? Magari non lo scacciato di 50 anni fa ma men che meno il primo della lista.
“Dottor Cavatorta, ben ricordo che ai Suoi tempi si usava ancora la lingua italiana e quindi mi permetta di supporre che possa non aver dimestichezza con il ducale ufficiale, oltre tutto sicuramente diverso da quello che veniva definito dialetto parmigiano – e qui l’attempato gentiluomo ebbe come un moto di spontaneo ribrezzo – neanche si trattasse di un formaggio.
“Ben lo ricordo perché parlai la lingua italiana fino all’instaurarsi della rivoluzione ducale e so ancora parlarla in modo discretamente fluente e, spero me lo concederà, con ottima dizione. Di solito lo parlo con coloro che vengono affettuosamente trattenuti quando, garbatamente fermati dalle nostre guardie, dimostrano di non sapersi esprimere in ducale, ma oggi ho la consolazione, e starei per dire la soddisfazione, di parlarlo con un grandissimo scienziato noto in tutto il mondo.”
Qui il distinto, e francamente anche un po’ stucchevole, gentiluomo si produsse in una teatrale pausa e fece un gesto con la mano che, all’altezza della spalla, avanzava con maestosa lentezza verso la webcam, o qualunque suo equivalente esistesse nel 2079, che chiaramente significava “Adesso parla tu, stronzetto!”
(continua, eh se continua…).