Macerata.
Le Marche, essendoci nato e cresciuto fino ai 18 anni, e poi ritornato a cadenza uniformemente decelerata nel corso degli anni, le conosco abbastanza bene. E non sono facili da descrivere e da spiegare. Nella loro struttura accidentata sono una collezione di etnie, di dialetti, di riferimenti, nascondono capolavori architettonici e paesaggistici nei punti più impensati e fondamentalmente sono una terra franca fra nord e sud, che a nessuno dei due si apparenta.
Macerata è un misterioso gioiello atopico e utopico, svagatamente atemporale, che cela incredibili mirabilie come lo Sferisterio, piazza della Libertà nella sua assoluta integralità, il monumento ai caduti che ha un respiro e un’imponenza fuori del comune, palazzo Buonaccorsi, il Duomo, la basilica-bonsai, la visuale mozzafiato da viale Puccinotti, i vicoli dall’atmosfera rinascimentale del centro storico, templi della gastronomia capricciosamente disseminati per ogni dove (La Brace secondo me mezzo gradino sopra tutti), quella melodiosa parlata che è una specie di ciociaro ingentilito e armonico e che ti mette ipso facto di buonumore (così come quella anconetana un po’ singhiozzante, sincopata e in levare mette un po’ il nervoso).
Nonostante Macerata abbia ospitato l’agonia e la morte della mia zia e vice-mamma e il crollo nella demenza senile del babbo Tonino e sia stata quindi, un quarto di secolo fa, la meta di affannose rimpatriate coatte in cui mi sciroppavo 700 chilometri nello spazio di un weekend, continuo a ricordarla come un angolo di gioia e di bellezza.
Non mi va di dire altro. Se non di abbracciarla come una vecchia signora oltraggiata e messa sotto i riflettori della spietata cronaca non per le sue virtù ma per un episodio che la marchia a fuoco. Un po’, per altro, come successe 12 anni fa a Parma che, in un turbinio di ammazzamenti abietti ed aberranti venne definita da Repubblica “l’Aspromonte del Nord”.