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ADRIANO 80.

Gli ormai imminenti 80 anni di Celentano sarebbe bello che diventassero una festa nazionale, o meglio nazional-popolare, che rispecchi un’Italia semplice ma geniale, esterofila e quietamente provinciale, metropolitana e contadina, sempre in bilico fra il boom e la catastrofe, capace di enormi sorprese come di cialtronesche furbate.

Per certi versi Celentano è talento allo stato puro, ma solo per certi versi. Negli anni ha lavorato su se stesso diventando uno spaccato della nazione con le sue inesauste contraddizioni. Un personaggio, un’icona, un feticcio, perennemente in bilico fra showman e paziente artigiano scenico, capace con simpatica improntitudine di riciclare i suoi obiettivi limiti personologici in tratti caratteristici quasi ammalianti (silenzi, paurosi limiti dialettici, sentenziosità autoreferenziale, vocalità complessivamente grezza e chi più ne ha più ne metta).

Il punto più basso credo sia l’imbarazzante intervista a David Bowie che, del thin white duke essendo sfegatato ed enciclopedico esegeta, non gli perdonerò mai.

Il più alto potrebbe essere il suo sgangherato sconclusionato gustosissimo “Fantastico”. Ma come privatissimo apprezzamento, trovo superlativa la sua prova d’attore in “Ecco, noi, per esempio…”, commedia dai risvolti agrodolci accanto al solito impagabile Renato Pozzetto, di cui vi ammannisco la seconda parte meno ridanciana.

In mezzo, tante belle canzoni anche abbastanza “trasversali”, di facile ascolto ma con tematiche non banali di tipo paraecologistico e/o misticheggiante accanto ad altre (scaltramente?) sconfinanti in un qualunquismo un po’ becero anti-beat, anti-divorzio, anti-sciopero (“Dammi l’aumento, signor padrone” francamente era un verso che tirava gli schiaffi), e una bellissima carriera da attore brillante (salvo quando si è diretto da solo, ma questo  capitava anche ad Alberto Sordi, si parva licet comparare magnis).

Alla fine, se inevitabilmente devo sintetizzare un vissuto complesso in poche sentenziose parole, l’ho sempre sentito come un interessante compagno di viaggio, uno che di quando in quando si perde di vista ma poi fa piacere ritrovarlo, sperando che nel frattempo non sia troppo cambiato. E in questo non mi ha mai deluso.

 

 

Chiedi chi erano i Beatles.

Se vuoi toccare sulla fronte il tempo che passa volando
in un marzo di polvere di fuoco e come il vecchio di oggi sia stato il ragazzo di ieri …
Se vuoi ascoltare non solo per gioco il passo di mille pensieri
tu chiedi chi erano i Beatles, chiedi chi erano i Beatles…

Ma davvero sono passati 50 anni? Mezzo secolo?

Il tempo ha questo, non dico di brutto, ma di imbarazzante e insidioso sì: che finché non ci pensi può sembrare una semplice astrazione, come l’amore la felicità la fedeltà la solidarietà che non si sa mai fino in fondo se c’è e quanto è grande. Non lo vedi, non lo tocchi, non lo annusi e non lo assaggi, non fa nessun tipo di rumore. Ma quando ci pensi, quando te ne accorgi, allora lo senti, oh se lo senti. E stenti a crederci, ti chiedi se hai capito bene.

Hai capito benissimo.

Se vuoi sentire sul braccio il giorno che corre lontano
e come una corda di canapa è stata tirata, come la nebbia inchiodata fra giorni sempre più brevi…
Se vuoi toccare col dito il cuore delle ultime nevi,              
 tu chiedi chi erano i Beatles, chiedi chi erano i Beatles…

Quando quattro scapestrati perdigiorno pubblicarono il loro primo singolo, era il 5 ottobre del 1962, 18263 giorni fa contando anche gli anni bisestili, l’Europa aveva finito di risollevarsi dagli effetti nefasti della guerra, c’era un boom economico sorprendente che, in modo un po’ beffardo, aveva premiato più gli sconfitti che i vincitori, a livello quasi leggendario per la nostra piccola patria che sotto la linea gotica si era scelta la parte in zona Cesarini, ma in modo estremamente incisivo e per certi versi ancora più miracoloso per la germania postnazista che non aveva conosciuto nessuna resistenza (anzi…) e aveva perfino subito l’umiliazione di essere spaccata a metà come una Corea o un Vietnam qualsiasi. L’Inghilterra arrancava un po’ di più e il suo impero si stava sfaldando, ma nel 1962 cominciava la sua rimonta sugli USA e sul resto del mondo in campo artistico (con uno di quegli avvolgimenti del destino che lasciano credere che la vita degli umani segua un disegno prestabilito, sempre il 5 ottobre 1962 esordiva anche sugli schermi un certo James Bond al cui confronto le spie americane sembravano imbranate, inefficaci, astemie e sessualmente impotenti).

Storica, a questo proposito, la domanda di John a Paul quando arrivarono in un’Amburgo messa molto meglio, come industria come consumi come divertimenti come qualità di vita, della loro austera e operaia Liverpool: “Ma sei sicuro che sono loro ad aver perso la guerra?”.

Voi che li avete girati nei giradischi e gridati, voi che li avete ascoltati e aspettati, bruciati e poi scordati, voi dovete insegnarmi con tutte le cose (non solo a parole)

ma chi erano mai questi Beatles, ma chi erano mai questi Beatles?

Il pezzo inciso dai Lousy Four (quali sicuramente gli attoniti dirigenti della Parlophone li consideravano, nonostante le stridule rassicurazioni in senso contrario del loro plateale manager Brian Epstein) non è, come capita spessissimo per le opere prime, dei più ricordati, degli artisticamente migliori, non dico rispetto al loro stratosferico repertorio ma forse neppure rispetto allo standard dei gruppi di Liverpool e del Mersey in quel periodo attivissimi, si tratta di un elementare brano in stile vagamente skiffle con un’accattivante armonica a cura di John Lennon e delle gradevoli armonie vocali.

Ma se una canzone può essere prima che un’opera d’arte (e “Love me do” si mantiene lontano da codesto standard), un documento, un reperto, beh questa lo è.

Marca e marchia in modo indelebile e irreversibile la scissione fra il rock americano e quella cosa strana, molto inglese e quindi molto europea (sempre che gli Inglesi ci stiano a sentirsi e definirsi europei, il che non è necessariamente detto) che è il beat: una versione del rock edulcorata e timorata di Dio adatta per gli spazi piccoli, ristretti ed affollati della Vecchia Europa, laddove il blues e il rock sembrano fatti apposta per gli sterminati spazi transoceanici dove la trasgressione si perde, si annacqua e fa meno scandalo.

Perchè la pioggia che cade è presto asciugata dal sole,
un fiume corre su un divano di pelle, ma chi erano mai questi Beatles? 
Di notte sogno città che non hanno mai fine
e sento tante voci cantare e laggiù gente rispondere,
monto tra onde di sole, cammino nel cielo del mare
Ma chi erano mai questi Beatles, CHI ERANO MAI QUESTI BEATLES…?

Non dimentichiamoci mai che tutta la civiltà statunitense ruota intorno al mito del “pursuit of happiness”, il raggiungimento della felicità, così come la Repubblica Italiana è fondata sul lavoro, e francamente non si sa, oggi come oggi, quale delle due utopie sia quella più lontana dalla realtà. Quanto all’Inghilterra, la si può riassumere nel trittico “Sangue, sudore e lacrime” scandito da Winston Churchill nel 1939, e di cui nel 1962 si respiravano ancora gli ultimi aromi, contrapposto magari allo stentoreo quasi calcistico V I N C E R E M O ! ! ! di ducesca memoria.

Roberto Roversi, in una fase in cui (anche lui come molto prima di lui il suo fraterno amico Pasolini) flirta con la cultura di massa (lui sceglie la canzonetta mentre Pierpaolo si improvvisa regista con risultati quanto mai pregnanti anche se non graditi a tutti, altrimenti non sarebbe più stato Pasolini) produce un testo stupendo su musica questa volta di Gaetano Curreri che la canterà con i suoi Stadio (ma forse la versione più bella resta quella di Gianni Morandi) in cui sapere chi erano i Beatles è importante come sapere dell’Europa che bruciava nel fuoco di due guerre idiote, insomma i Beatles sono, per antonomasia, il riassunto popolare del secolo breve.

Cinquant’anni fa, negli studi di Abbey Road cari anche ai Pink Floyd (che però a quel tempo frequentavano la High School e suonavano al massimo il campanello di casa) la serendipità prende il sopravvento. Inizia un clamoroso effetto palla di neve che per 7 anni non conosce un attimo di sosta. Neanche quando i non più Lousy ma Fab Four smettono di tenere concerti (i brani che incidevano erano talmente curati e raffinati che la loro riproduzione dal vivo era virtualmente un prendere per il sedere i fan, e del resto nessuno dei partecipanti ai loro concerti riusciva a sentire chiaramente una singola nota sotto la muraglia sonora degli urli delle fans assatanate e lubrificatissime); neanche quando alcune incaute provocazioni di Lennon alienano loro le simpatie dello zoccolo duro puritano del pubblico statunitense; neanche quando la morte di Brian Epstein li lascia apparentemente senza guida.

E’ un settennato dalle tinte forti e dai sapori prelibatissimi con almeno una trentina di canzoni che diventano evergreens nell’atto stesso di essere ascoltate per la prima volta.

Ma l’effetto palla di neve non si arresta neppure con la loro scissione, secondo me trova una conclusione solo nei due colpi di pistola di Mark Chapman, perché fino a lì tre su quattro dei Beatles avevano dato delle prove eccezionali anche come solisti (Lennon addirittura è ricordato da molti giovanissimi indipendentemente dai Beatles).

L’ultimo brano che la band registra (sarà un caso? Secondo me no ma poi chi lo sa…) si intitola “The end”, che volendo ci aveva già pensato qualcun altro un paio d’anni prima ma va bene lo stesso.

E’ occupato quasi per intero dai 4 assoli di Ringo, John, Paul e George e si conclude con le mantriche parole “E alla fine l’amore che prendi è uguale all’amore che dai.”.

Chiediamocelo davvero, chi erano i Beatles….

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