E pensare, Enzo…
Pensare, Enzo, che in uno dei miei ultimissimi post, non più tardi di una settimana fa, ti avevo infilato in una schiera di “cantanti non cantanti” [che schierava insieme a te Piero Ciampi, titolare del post, Claudio Lolli e ovviamente Paolo Conte del quale hai reinterpretato alcune delle più belle canzoni, da “Bartali” (quella dove “abbaia la campagna”) a “Sudamerica” (quella dove “i ballerini aspettan su una gamba l’ultima carità di un’altra rumba”) a “Questa sporca vita” (quella della sublime tautologia al limite del delirante-demenziale “Se non avessi questa vita morirei”)]
Rispetto ad altre morti (e penso al buon Febo Conti) che mi hanno attivato con una benigna ma anche un po’ toccante abreazione ricordi sepolti sotto anni o decenni di oblio, te ti avevo sempre in mente. E lo sapevo che non stavi bene, anche se probabilmente hai vissuto la convivenza col tumore con la stessa pudicizia un po’ scontrosa di Mennea che quando lo incontrava un conoscente in ospedale diceva che era venuto ad accompagnare un parente. Ti vedevo con quell’aria che un po’ si capisce e un po’ non si capisce, ma alla fine si capisce benissimo.
E quando ti vedevo il pensiero ti oltrepassava e vagabondava indietro a una storia che sembrava, in tutto e per tutto, un film neorealista con qualche spunto grottesco e tanta allegra miseria, in quegli anni che transitavano fra il dopoguerra e il boom in una Milano che doveva essere, per chi se ne innamorava, bellissima come certe donne dal fascino contorto, obliquo e dionisiaco (e come non farsi venire in mente Mariangela Melato, che a modo suo stava a Milano come un’altra ancora più donisiaca, Nannarella Magnani, stava a Roma).
Il Santa Tecla. Che uno immagina in periferia tipo Lambrate e invece è a dieci minuti a piedi dal Duomo. La fine degli anni ’50 ed un incredibile dream team di volenterosi ragazzi, conglomerati con Milano, che si chiamavano, in ordine sparso, Adriano Celentano, Tony Renis, Giorgio Gaber, Gino Santercole, Luigi Tenco e per l’appunto Enzo Jannacci, di cui il solo Elio Cesàri in arte Tony Renis con radici lombarde, Tenco transfuga da una genova francofila e brelian-brassensiana che lo rispecchiava solo in parte, Gaberscik ovviamente triestino-istriano e gli altri tre solidamente pugliesi.
Il vuoto mito americano di terza mano che allora però non sembrava vuoto e poteva essere anche di quindicesima mano ma era bello da sognare, un congegno spaziotemporale che vi spostava dai Navigli al Potomac e ritorno.
Eri parte integrante e vivacissima di un big bang che ha lasciato un segno profondo nella musica, nello spettacolo, nella cultura italiana. E c’è poco da dire, la metà secca di quel sestetto oggi non c’è più. Come se gli uomini di spettacolo facessero una fatica incredibile a raggiungere una piena vecchiaia (che oggi come oggi è collocabile alla soglia degli 80 anni) e avessero fretta di confrontarsi con altri mondi e altre dimensioni.
Per tanti motivi per certi versi concatenati fra loro, non ho tempo e modo (ma credo che vada bene anche così) di dedicarti un post articolato, meditato, frutto di un attento lavoro di riflessione e di ricerca.
Ma poi mi dico, Enzo, che non ti piacerebbe. O quanto meno mi piace pensarlo.
E allora, come la fantomatica scimmia che, una volta su svariati miliardi, picchiando a caso sulla tastiera potrebbe riscrivere pari pari i Promessi Sposi (che, chissà perché, mi ricorda tanto la metafora tratta dalla fisica quantistica del gatto che è simultaneamente vivo e morto finché l’osservatore non ne verifica le effettive condizioni) ho lasciato che le dita vagassero, piene di affetto per te e memore di tutta la gioia profonda che mi hai saputo dare, sicuro che qualcosa di sensato avrebbero messo insieme.
Altrimenti, come avrebbe concluso un altro grandissimo milanese, che però mi ha dato più dolori e principi di noia che gioie,
Ma se invece fossi riuscito ad annoiarvi, credete che non s’è fatto apposta.
Piero Ciampi e Pietro Mennea.
Inizialmente volevo fare un post su Piero Ciampi, semisconosciuto cantautore livornese che è stato splendidamente ricordato un paio di giorni fa dai suoi due colleghi Ugo Cattabiani e Alessandro Casappa (con la partecipazione straordinaria sotto tutti i punti di vista di Antonio Silva del Club Tenco) in una di quelle iniziative multimediali polisemantiche che germinano nei locali ricchi di cultura, di pensiero, di umori germinali della Biblioteca Civica di Parma.
Mentre il post non poteva decollare per le solite stucchevoli ragioni tecnico-logistiche di impervio ed avventuroso accesso a Internet che oramai non menziono più perché non ho voglia alcuna di farmi commiserare, sono stato colpito ad altezza d’uomo dall’inopinata notizia della morte di Pietro Mennea.
Quando due cose capitano a poche ore di distanza (di fatto, mentre Ugo e Alessandro celebravano e cantavano Piero Ciampi, Mennea già non c’era più ma io non lo sapevo ancora) chi ha uno psichismo tendente al sincretico, all’erratico, al divergente semplicemente accomuna le due cose, anche se il loro verificarsi in quasi contemporanea è dettato dalla Più Cieca Delle Casualità, e vi trova delle affinità che rendono quasi preziosa la loro sincronicità.
Perché, Jung non lo dice esplicitamente in nessuno dei suoi testi, al massimo lo lascia esplicitare a Wittgenstein, ma ce lo lascia largamente capire, i nessi causa-effetto non fanno parte della realtà ontologica, sono accessori cognitivi della mente dell’uomo che guarda e non può che catalogare, e che li infila a mo’ di assi portanti nella realtà che percepisce così che lo spaventi, lo addolori e lo confonda un po’ di meno.
Niente faceva di Piero Ciampi uno chansonnier (nei tardi anni ’50 la parola “cantautore” ancora non esisteva*. E niente faceva di Pietro Mennea uno sprinter.
Eppure l’uno e l’altro hanno, con somma testardaggine e anche a costo di farsi del male, deciso qual’era la loro strada e l’hanno perseguita fino in fondo.
Pietro arrivò a disputare 5 olimpiadi vincendone una, a stabilire un record del mondo dei 200 metri che resse 17 anni (e 34 anni dopo è tuttora record europeo), a collezionare una ricca collezione di medaglie di tutti i tipi fra le stesse Olimpiadi e i Campionati Mondiali ed Europei.
Piero, viceversa, in vita ebbe pochissime soddisfazioni se non quella di vedere una sua giovanissima ma già famosa conterranea rifiutare i facili successi di Sanremo, Disco per l’Estate, Cantagiro, Canzonissima, Cantatè, Cantachetipassa per pubblicare a soli 20 anni un intero elleppì (come si diceva allora percependo un vinile con almeno 4 sensi su 5 perchè solo i maniaci arrivavano a leccarlo) con le sue canzoni.
Per lui ogni concerto era più una corrida (emblematica la sua tagliente risposta a uno spettatore del Teatro Ariston che lo fischiava ironizzando sulla sua evidente quasi tautologica ubriachezza, “Io rischio, te no!”) che una passerella, più una manifestazione sciamanica che la stanca ripetizione del successo del momento.
Ma anche la vittoria di Pietro a Mosca, rimontando 5 metri sugli ultimi 50 all’apollineo Alan Wells ormai sicuro del successo, sembra un concerto di Ciampi.
Gli omaggi di Paoli, Lolli, Conte, Paolo Rossi arrivarono quando si era già arreso alla signora che, come scrisse al suo fedele amico Ezio Vendrame, “lo veniva a trovare tutte le notti ma è molto brutta, sai Ezio, e io la faccio dormire in un’altra stanza”, probabilmente contento che se lo portasse via quando i plasticati anni ’80, talmente distonici per lui che gli sarebbero certamente stati fatali, erano iniziati da una manciata di giorni.
Tutte le volte che sentite Paolo Conte e Claudio Lolli o qualcun altro con una voce che sta all’armonia ortodossa come Polifemo allo strabismo, pensate che senza l’azione da rompighiaccio di Piero (che si era innestata, estremizzandola, su quella di Jannacci, che però a parte i problemi di intonazione era ed è tuttora un eccezionale musicista dotato di un incredibile swing mentre Ciampi aveva qualche problema anche col campanello di casa) probabilmente quel cantautore si limiterebbe a scrivere e tutt’al più a dipingere.
E quando vedete qualche fisico scarno, smilzo, sgraziato passare davanti a delle montagne di muscoli e proteine frutto forse di Madre Natura ma ancora più probabilmente di Zia Chimica, guardate bene, strizzate l’occhio per percepire meglio e forse l’inconfondibile sagoma di Pietro Mennea (ormai restituita all’Universo e quindi aspaziale ed atemporale) farà una smorfia che oggi voglio chiamare sorriso dalla sua spalla sinistra.
*La inventarono, secondo il sedimento progressivo delle leggende urbane, proprio sul finire degli anni ’50, l’ormai obliato Ennio Melis e Vincenzo Micocci, famosissimo per essere stato immortalato da Alberto Fortis (con le inequivocabili parole, impossibili da scambiare per una affettuosa complimentosa celebrazione “Vincenzo io ti ammazzerò, sei troppo stupido per vivere…”) come l’archetipo dei discografari romani e financo romaneschi, incapaci di capire tutto quello che succede più a nord della Maremma.
Il primo “cantautore” era Gianni Meccia, guarda caso anche lui oggetto di un’invettiva, molto meno famosa e forse solo scherzosa, da parte del duo Claudio Bisio-Rocco Tanica che in una loro dimenticabile canzone lo apostrofarono con un “Odio Gianni Meccia e gli darò la caccia”.