Piero Ciampi e Pietro Mennea.
Inizialmente volevo fare un post su Piero Ciampi, semisconosciuto cantautore livornese che è stato splendidamente ricordato un paio di giorni fa dai suoi due colleghi Ugo Cattabiani e Alessandro Casappa (con la partecipazione straordinaria sotto tutti i punti di vista di Antonio Silva del Club Tenco) in una di quelle iniziative multimediali polisemantiche che germinano nei locali ricchi di cultura, di pensiero, di umori germinali della Biblioteca Civica di Parma.
Mentre il post non poteva decollare per le solite stucchevoli ragioni tecnico-logistiche di impervio ed avventuroso accesso a Internet che oramai non menziono più perché non ho voglia alcuna di farmi commiserare, sono stato colpito ad altezza d’uomo dall’inopinata notizia della morte di Pietro Mennea.
Quando due cose capitano a poche ore di distanza (di fatto, mentre Ugo e Alessandro celebravano e cantavano Piero Ciampi, Mennea già non c’era più ma io non lo sapevo ancora) chi ha uno psichismo tendente al sincretico, all’erratico, al divergente semplicemente accomuna le due cose, anche se il loro verificarsi in quasi contemporanea è dettato dalla Più Cieca Delle Casualità, e vi trova delle affinità che rendono quasi preziosa la loro sincronicità.
Perché, Jung non lo dice esplicitamente in nessuno dei suoi testi, al massimo lo lascia esplicitare a Wittgenstein, ma ce lo lascia largamente capire, i nessi causa-effetto non fanno parte della realtà ontologica, sono accessori cognitivi della mente dell’uomo che guarda e non può che catalogare, e che li infila a mo’ di assi portanti nella realtà che percepisce così che lo spaventi, lo addolori e lo confonda un po’ di meno.
Niente faceva di Piero Ciampi uno chansonnier (nei tardi anni ’50 la parola “cantautore” ancora non esisteva*. E niente faceva di Pietro Mennea uno sprinter.
Eppure l’uno e l’altro hanno, con somma testardaggine e anche a costo di farsi del male, deciso qual’era la loro strada e l’hanno perseguita fino in fondo.
Pietro arrivò a disputare 5 olimpiadi vincendone una, a stabilire un record del mondo dei 200 metri che resse 17 anni (e 34 anni dopo è tuttora record europeo), a collezionare una ricca collezione di medaglie di tutti i tipi fra le stesse Olimpiadi e i Campionati Mondiali ed Europei.
Piero, viceversa, in vita ebbe pochissime soddisfazioni se non quella di vedere una sua giovanissima ma già famosa conterranea rifiutare i facili successi di Sanremo, Disco per l’Estate, Cantagiro, Canzonissima, Cantatè, Cantachetipassa per pubblicare a soli 20 anni un intero elleppì (come si diceva allora percependo un vinile con almeno 4 sensi su 5 perchè solo i maniaci arrivavano a leccarlo) con le sue canzoni.
Per lui ogni concerto era più una corrida (emblematica la sua tagliente risposta a uno spettatore del Teatro Ariston che lo fischiava ironizzando sulla sua evidente quasi tautologica ubriachezza, “Io rischio, te no!”) che una passerella, più una manifestazione sciamanica che la stanca ripetizione del successo del momento.
Ma anche la vittoria di Pietro a Mosca, rimontando 5 metri sugli ultimi 50 all’apollineo Alan Wells ormai sicuro del successo, sembra un concerto di Ciampi.
Gli omaggi di Paoli, Lolli, Conte, Paolo Rossi arrivarono quando si era già arreso alla signora che, come scrisse al suo fedele amico Ezio Vendrame, “lo veniva a trovare tutte le notti ma è molto brutta, sai Ezio, e io la faccio dormire in un’altra stanza”, probabilmente contento che se lo portasse via quando i plasticati anni ’80, talmente distonici per lui che gli sarebbero certamente stati fatali, erano iniziati da una manciata di giorni.
Tutte le volte che sentite Paolo Conte e Claudio Lolli o qualcun altro con una voce che sta all’armonia ortodossa come Polifemo allo strabismo, pensate che senza l’azione da rompighiaccio di Piero (che si era innestata, estremizzandola, su quella di Jannacci, che però a parte i problemi di intonazione era ed è tuttora un eccezionale musicista dotato di un incredibile swing mentre Ciampi aveva qualche problema anche col campanello di casa) probabilmente quel cantautore si limiterebbe a scrivere e tutt’al più a dipingere.
E quando vedete qualche fisico scarno, smilzo, sgraziato passare davanti a delle montagne di muscoli e proteine frutto forse di Madre Natura ma ancora più probabilmente di Zia Chimica, guardate bene, strizzate l’occhio per percepire meglio e forse l’inconfondibile sagoma di Pietro Mennea (ormai restituita all’Universo e quindi aspaziale ed atemporale) farà una smorfia che oggi voglio chiamare sorriso dalla sua spalla sinistra.
*La inventarono, secondo il sedimento progressivo delle leggende urbane, proprio sul finire degli anni ’50, l’ormai obliato Ennio Melis e Vincenzo Micocci, famosissimo per essere stato immortalato da Alberto Fortis (con le inequivocabili parole, impossibili da scambiare per una affettuosa complimentosa celebrazione “Vincenzo io ti ammazzerò, sei troppo stupido per vivere…”) come l’archetipo dei discografari romani e financo romaneschi, incapaci di capire tutto quello che succede più a nord della Maremma.
Il primo “cantautore” era Gianni Meccia, guarda caso anche lui oggetto di un’invettiva, molto meno famosa e forse solo scherzosa, da parte del duo Claudio Bisio-Rocco Tanica che in una loro dimenticabile canzone lo apostrofarono con un “Odio Gianni Meccia e gli darò la caccia”.