Archivi Mensili: ottobre 2012

Dolce soffio dell’utopia 1 – Nero soffio dell’entropia 0. Palla al centro.

Belìn che fatica. Ma se ci lascio le penne prendiamo il 51%.

Probabilmente lo avete capito, o miei pochissimi ma apparentemente fedeli ed appassionati lettori, che di tuffarmi nel miasmatico marasmatico inquinato letale nocivo mare della cronaca ne ho sempre meno voglia.

Non ho l’andatura, la consecutio e la prosecutio e neanche l’adcusatio manifesta del giornalista, e forse neppure il semplice ma importante piglio deciso e dinamico del cittadino che non ci tiene a fingersi giornalista (anche se con i mezzi odierni chiunque abbia un blog può sentirsi Enzo Biagi, chiunque abbia un account Youtube può sentirsi un anchorman, o un travolgente comico, o il cantautore impegnato del Terzo Millennio, o un idiota di talento, chiunque abbia una casella e-mail può sentirsi uno Jacopo Ortis pensoso sul limitare della vita, e gli esempi potrebbero proseguire fino alla nausea prima mia che vostra) e che osserva, si tiene informato e dice la sua.

Mi sono scoperto, piuttosto, una modesta timida minimalistica vena letteraria che cerco di coltivare perché mi riempie una vita che a volte rischia di far ridere i polli (che poi un giorno mi dovranno spiegare perché vengano presi a metro di paragone di un riso immotivato e stolto). Ma oltre a ciò, null’altro può, vuole o deve significare.

L’esito delle elezioni siciliane, però, mi suscita delle particolari emozioni. Conditio sine qua non, questa qua, per mettermi in marcia per un post.

A Parma ho visto, e toccato con mano, che un cambiamento è possibile. Che le vecchie, contorte, ingarbugliate, autoreferenziali logiche di potere possono essere spazzate via qual materiale escrementizio al tirare una simbolica catena. E che c’è, c’è, ma chi ha detto che non c’è?, un processo autenticamente democratico che parte dal basso (anche se qualcuno vuol vederci congiunture astrali, coinvolgimenti massonici, congiure demoplutocratiche e chissà cos’ltro ancora) e che permette, se la gente lo vuole, di vedere facce nuove, progetti nuove, strategie alternative e magari (addirittura) il dolce soffio dell’utopia contro il nero soffio dell’entropia, quel “buco nello Stato dove i soldi van giù” efficacemente cantato da quel pericoloso intellettuale di Adriano Celentano ormai quasi 40 anni fa.

Ho certamente anche visto e toccato con mano come al Dream Team a 5 Stelle nessuno sia disposto a dire “Prego, si accomodi…” e a riempirlo di complimenti.

Immaginate l’elettorato di Parma come una bella giovane ragazza una volta ingenua ma poi progressivamente sempre più consapevole del suo diritto/dovere di pensare con la sua testa.Fatto?

Ora immaginate i poteri forti della città (Unione Industriali, Gazzetta di Parma di cui l’Unione Industriali è l’azionista di riferimento, aziende partecipate comunali che in precedenza facevano il bello e il cattivo tempo senza che l’amministrazione comunale dicesse “Oh, ragazzi, guardate che non stiamo giocando a Monopoli, Teatro Regio con la sua inesausta voglia di grandeur che chiunque mette in discussione arriva Giuseppe Verdi e gli tira i piedi in piena notte) che hanno già trovato alla giovine un nuovo marito, nella persona di un centrosinistra nobilitato e rilegittimato da 14 anni di opposizione (come la Juve in serie B, per capirci) mentre i ciarlatani che si autodefinivano Civiltà Parmigiana spendevano, spandevano, colludevano, aprivano cantieri come fossero bustine di zucchero, progettavano metropolitane e stazioni post-moderne; ma la ragazza non ci sta: l’hanno già fregata una volta e si è fatta furba.

Ha adocchiato un giovanotto simpatico e un po’ spiantato pieno di buona volontà e di grandi idee che fa parte di una pittoresca famiglia allargata piena di sorprese, a metà strada fra una confraternita e un clan.

Non si può parlare di vero e proprio colpo di fulmine, ma piuttosto di un innamoramento che parte da lontano, lento ma proprio per questo solido.

Così che, tra il 6 e il 21 maggio, quando le viene chiesto “Vuoi tu sposare l’usato sicuro costituito dalla arrogante macchina da guerra di centrosinistra, che si tratta esclusivamente di una formalità visto che altri pretendenti alla Tua altezza non ce ne sono nè per dritto nè per rovescio, a cui ti concederai senza fare domande e lui farà di te quella donna di gran classe che sei sempre stata e devi tornare ad essere?” ella inopinatamente risponde “L’usato sicuro te lo prendi tu, io mi sposo Federico Pizzarotti e tutto il suo simpaticissimo parentado, anche se li tratterete a pesci in faccia come degli ignoranti che non sanno neanche cosa sia la politica, gli renderete la vita impossibile e dopo un paio di mesi gli farete fretta perché trovino delle soluzioni che voi non solo non avete trovato, ma neppure vi siete sognati di cercare per la bellezza di 14 anni…”.

Ora.

In Sicilia era materialmente impossibile immaginare una vittoria piena. Lo si voglia o no, il MoVimento 5 Stelle è, al momento, a misura di Nord ed essendo legato a doppio filo al web non può non risentire della diversa penetrazione delle tecnologie informatiche e dell’uso di Internet fra, tanto per fare un esempio, l’Emilia Romagna e la Sicilia.

Ma anche, se non soprattutto, dove la vittoria è impossibile si può avere un test interessante di come potranno funzionare le cose dove la vittoria piena e incondizionata è talmente a portata di mano da fare paura.

Il candidato a 5 Stelle non ha vinto queste elezioni regionali, ma il MoVimento è diventata la lista più votata in assoluto. In quanto sia il centro-destra che il centro-sinistra presentavano delle coalizioni composite, mentre le 5 Stelle correvano in orgogliosa solitudine. E avranno 15 deputati.

E’ come fare 0-0 col Barcellona e poi sapere di avere partite più abbordabili.

Una eventuale, secondo me non impossibile, coalizione con l’Italia dei Valori di Antonio di Pietro, in passato quasi gemellato con Grillo (almeno a livello di blog) potrebbe presentarsi come quasi favorita assoluta ad elezioni che, indipendentemente da fantomatiche autolesionistiche crisi aperte dal lucertolone ferito e condannato, sono di qui a 4 mesi e mezzo.

L’alternativa allo sfascio c’è. Non sarebbe nè comoda nè taumaturgica ma, vivaddio, “la gh’è”.

P. S. Domani il blog osserva una giornata di assoluto riposo così ci riposiamo tutti. A risentirci venerdì 2.

Dalla compilation “Rinaldoni’s Greatest Hits”: “E’ un blog di nicchia”. Bravo. Grazie.

Breve analisi poetica di questo blog.

E’ un blog di nicchia,
ammucchia velleità, rispecchia spocchia,
esprime un uomo onesto e senza macchia
comunque meglio assai del Conte Tacchia.

<E' un blog pensoso
(l'esse dopo la enne non è a caso),
medita sulla vita in modo sfuso
e alle volte è perfino un poco peso.

E' un blog giocondo
e guarda con sorriso altero il mondo
pur se alle volte leggerlo è tremendo
ha un bello stile raffinato e lindo.

E' un blog da niente,
troppo prolisso e troppo supponente,
l'autore è miserevole e arrogante
ma dice cose che non son mai finte.

E' un blog corposo:
lui scrive posts come soffiarsi il naso.

Illustrato da straordinari “artisti di nicchia”: Sergio Corazzini, Juri Camisasca, Fabrizio Tavernelli.

Lancillotto e Morgana – Terza puntata con grandioso successo di pubblico e di critica, encomi solenni e bacio accademico.

[Bignamino per Miss Tanco: Il dio dei Romanticoni Intellettuali, con la sua pirotecnica dialettica, illumina Lancillotto che apparentemente scende a più miti consigli e diventa più comprensivo nei confronti dell’amata. Ma durerà?].
Alla fine le disperate invocazioni giunsero alle orecchie del suo divino protettore, il dio dei romanticoni intellettuali, Frederick Mock, che, preceduto da un tintinnio di lucchetti dell’amore e da un profluvio addominale di maniglie dell’amore, comparve molto scenograficamente attraverso una spaccatura in una nuvola temporalesca che si era appena formata (a crack in the sky and a hand reaching down to me), si ravviò con gesto androgino i capelli e disse senza parafrasare “Lancillotto, sei vicino alla verità ma devi ancora lavorare su te stesso. Sei convinto di essere il più figo del Reame di Camelot ma, credimi, una femmina per innamorarsi di te deve avere una certa dose di fantasia. Escluderei l’amore a prima vista, il colpo di fulmine, la cotta fulminante, un inumidimento della biancheria intima al solo vederti appoggiato al bancone del bar mentre sorseggi il quarto Bloody Mary. Ti darei invece grosse speranze, ed è quello che tutta la tua ormai più che trentennale vita affettiva ti è andata insegnando, per degli innamoramenti che partono da lontano, prendono la tangenziale, fanno il giro panoramico della città, escono alla Crocetta mentre tu sei a San Lazzaro, riprendono la tangenziale nel senso opposto e alla fine si imbattono in te che parli riparli straparli ipnotizzi intossichi ma alla fine ti infilzi talmente bene nel rapporto che la tapina non sa più come schiodarti. Me so’ spiegato, Lancillo’?”

Rianimato da quelle parole, il Prode Cavaliere smise di misurare a nervosi passi il salone, e cominciò a concentrarsi intensamente sul ricordo che aveva di Morgana: come di colpo, i suoi terrificanti sortilegi diventarono i dolci vezzi di una damigella spaventata; le sue letali difese diventarono il lecito filtro fra chi voleva entrare nella sua vita solo per prendere, e chi aveva qualcosa da dare; i suoi enigmatici sfìngei aforismi diventarono il rilassato gioco con le parole di una donna che non ne può più della seriosità pesantissima del Maschio Sedicente Innamorato; e i suoi occhi sfuggenti e beffardi, oltre che (c’è bisogno di dirlo? Davvero c’è? E digiamolo…) ridenti e fuggitivi diventarono due sublimi pietre preziose incastonate nel volto più dolce su cui occhio d’uomo si fosse mai posato. E alle sue spalle, passettini insinuanti si facevano già sentire…

Ecco che Lancillotto aveva trovato la vera soluzione all’enigma: non c’era nessun enigma da risolvere.

Ecco che Lancillotto si era liberato di tutti i sortilegi: perché essi erano solo nella sua mente ottenebrata di cupidigia.

Ecco che non c’erano più fossati invalicabili, liquami tossici, mitici animali da bestiari, tetri castelli in cui fiondarsi a rischio della propria stessa vita.

Dove prima c’era il lugubre minaccioso salone, c’era adesso una radura tappezzata di una croccante erba appena spuntata, illuminata da un sole ancora tiepido, in cui animaletti di ogni genere e tipo si inseguivano spensierati.

Dietro Lancillotto c’era un nodoso invitante robusto albero: il Nostro Eroe si sedette appoggiato al tronco e socchiuse gli occhi… Stava forse morendo? E il Dio Mock gli concedeva l’ultima estasi di beatitudine, perché da dio povero e non in regola con i contributi non poteva concedergli nessun aldilà? Stava forse impazzendo? E tutta quella meravigliosa visione era pura e semplice illusione, mentre nella realtà una seconda ondata di giannizzeri e lanzichenecchi stavano già smembrando il suo corpo con i più truci e raffinati strumenti di tortura? O stava forse arrivando… no no, quest’ultima ipotesi gli sembrava la più irrealizzabile e remota, eppure mentre si addormentava felice sotto i raggi sempre più caldi del sole gli sembrò incredibilmente vera e reale.

E tutto il resto è vita.

A great day for freedom.

Dall’archivio di Leonardo. Odora di Prodi, di Seconda Repubblica, di quello che ero ed eravamo una piccola manciata di anni fa.

Merita la riesumazione. O almeno lo dico io.

Miracolo delle libere associazioni, e privilegio di chi sceglie la totale libertà espressiva: ero partito da Prodi che se ne torna a fare il nonno, poi ero transitato per la constatazione che da quando si è passati al sistema maggioritario c’è una nervosa alternanza tra centrodestra e centrosinistra che lascia pensare che chiunque vada al potere scontenta l’elettore che non vede l’ora di sotituirlo con i rivali; avevo inseguito nella memoria le circostanze che avevano affossato la Prima Repubblica, trovandone due largamente indipendenti ma alla fine entrambe decisive: l’inchiesta di Mani Pulite del 1992 e la caduta del Muro di Berlino del 1989, momento simbolico di alta enfasi spettacolare che aveva sancito la fine dell’utopia socialcomunista. Ma a quel punto ero stato fulminato dalla nitida bellezza di un testo dei Pink Floyd che parlava proprio di questo, e meglio di come sarei riuscito a parlarne io:

Nel giorno in cui cadde il muro
Gettarono i lucchetti per terra
E alzando i calici lanciammo un grido perché la libertà era arrivata.
Nel giorno in cui cadde il muro
La nave dei folli si era finalmente arenata
Promesse accendevano la notte come colombe di carta in volo

Ho sognato che non eri più al mio fianco
Nessun calore e nemmeno l’orgoglio é rimasto
E sebbene avevi bisogno di me
Era chiaro che non potevo più fare niente per te

Ora la vita si sta svalutando giorno dopo giorno
Mentre amici e vicini si allontanano
E’ c’é un cambiamento che, con tutto il rimpianto, è irreversibile.
Ora le frontiere oscillano come sabbia del deserto
Mentre le nazioni si lavano le mani insanguinate
Di lealtà, di storia, in sfumature di grigio

Mi sono svegliato al suono dei tamburi
La musica suonava, il sole del mattino stava entrando
Mi sono voltato e ti ho guardata
E tutto, tranne un residuo amaro, é scivolato via
.. scivolato via.

 
Al di là della perfezione lessicale vagamente shakespeariana,  la trovata geniale è quella di alternare fra strofa  e ritornello la dimensione politica e quella personale: i muri che cadono, le frontiere che si spostano, le nazioni chiamate al giudizio della Storia… e un amore che finisce con la stessa teatrale solennità. E in realtà un approccio umanistico integrale dovrebbe portarci alla conclusione che i drammi che avvengono nel chiuso delle coscienze individuali non sono meno importanti delle tragedie, o dei trionfi, che coinvolgono l’intera umanità.
E tutto questo in quello che sarebbe stato l’ultimo album di inediti dei Pink Floyd, 27 anni dopo i sogni del pifferaio alle porte dell’alba, i viaggi interstellari, l’enigmatico gatto Lucifer Sam e Emily che prendeva in prestito i sogni degli altri. Carl Gustav Jung sorride e si liscia la barba.

Per chi ha apprezzato la liberissima traduzione di “Comfortably numb”, ella miri che questa è assolutamente letterale. Ma da dove li pesco mai questi calembours? Boh….

Lancillotto e Morgana – seconda puntata.

[Bignamino per Miss Understanding: Lancillotto si pone degli epocali dilemmi su quali siano i diritti di un uomo sulla donna che lui ama e che parrebbe amarlo anche se… Boh… Mah…].

Avevamo lasciato il Nostro Eroe, al calare delle tenebre, virtualmente intrappolato tra l’impossibilità di uscire dal maniero di Morgana, l’improba improbabile improponibile impressionante impraticabile impresa di raggiungere l’Amata e farla sua, e (vivaddio eziandio) le mille insidie che sicuramente Steven Spielberg, assunto con contratto co.co.co da Morgana come addetto agli effetti speciali, aveva disseminato per i mille corridoi del castello, tutti fiocamente illuminati e pieni di botole che conducevano direttamente il malcapitato che vi cadesse nelle Malebolge infernali, dove Dante e Virgilio lo avrebbero apostrofato in terzine per tutta l’eternità. Brrrrrrrrrrrrrrrr……..

Che fare? Lancillotto si trovava in un immenso spoglio salone, incongruamente spazzato da venti artici nonostante l’unica fessura aperta fosse l’angusta bifora dalla quale era atleticamente penetrato (trattandosi per ora dell’unica penetrazione che fosse alla sua portata). La notte era ormai del tutto calata e solo una minuscola lanterna (alimentata da misteriosi costosissimi olii provenienti da Baghdad ) illuminava la scena.

Il Prode Cavaliere (iscritto all’albo dei Prodi Cavalieri della Regione Emilia-Romagna al numero 1568/bis ma in predicato di cancellazione per morosità pluriennale, nel qual caso sarebbe stato retrocesso a cavaliere di ventura senza assegni familiari) camminando nervosamente su e giù per il salone cominciò a pensare.

“E’ concetto eticamente spendibile che le donzelle siano mercanzia a disposizione del desiderio virile? Vuolsi così che l’opinione comune sia di tal fatta, ma a volte il dubbio mi assale… E’ gioco tale da valere la candela configurata come modesto premio finale avventurarsi in mille perigli, in cotante e cotali peripezie, sventrare dragoni, sfidare a singolar tenzone altri cavalieri che anèlano alla medesima vulva a cui tu anche anèli, sobbarcarsi estenuanti trasferte da un reame all’altro attratti a miglia e miglia di distanza da esotici afrori vaginali? E del resto dice così la saggezza popolare, che un singolo pelo pubico femminile potrebbe svolgere il lavoro di un numero imprecisato di buoi, anche se le nostre tuttora modiche e rudimentali cognizioni di fisica ci impediscono di dimostrare scientificamente il suddetto assunto….

Deve comunque il raggiungimento della Donna Amata equipararsi ad una Conquista? Havvi alcuna convincente logica in cotesta argomentazione? Io mi dico ‘Signornò, trattasi di certa ed evidente fallacia!’. Non deve piuttosto il raggiungimento della Donna Amata basarsi su una fitta e ben ricamata rete, su quella corrispondenza di amorosi sensi di cui tanto bene favella il poeta? E ordunque, da questo istesso momento il Prode Lancillotto si mette in cassa mutua come Prode Cavaliere, che a dirla tutta con un menestrello che si finge celtico ma in realtà è di ceppo ionico, e mi sont chi, che cammini avant e indreé, me fa mal i pee!”.</

E alla fine le disperate invocazioni giunsero alle orecchie del suo divino protettore, il dio dei romanticoni intellettuali, che disse…….

Lancillotto e Morgana – prima puntata.

 

Come mai non siamo in otto?

Perchè manca Lancillotto.

Si è invaghito di Morgana

già da qualche settimana.

Lei di lui si prende gioco

(le interessa in fondo poco)

ma lui, folle, non desiste,

notte e giorno implora e insiste.

Non so come e non so quando

lui finisce come Orlando

perde il senno e pure il sonno

sembrerà quasi suo nonno.

E così tutto d’un botto

perderemo Lancillotto.

 

La fata Morgana chiama Lancillotto dall’interno del suo castello: ora dovete sapere che Morgana è piccina, ma di aggraziate e commendevoli fattezze, e in fondo va detto che sì, neanche Lancillotto è quella gran picca… E dovete sapere che Morgana scatena al suo passaggio scie di feromoni, retrogusti di libidine inespressa ed inevasa, interi sciami di seducenti scintille; ma in realtà ella possiede fra le sue doti magiche un sortilegio selettivo che blocca alle porte del suo castello gli uomini innamorati di lei, mentre lascia il passaggio aperto a quelli che, malvolentieri e con malagrazia, accettano l’amore di lei contraccambiandolo con un volubile e chiaroscurale interessamento.

La voce con cui Morgana chiama Lancillotto è piena di promesse e di sottintesi ma, ahimè, non appena il prode cavaliere si avvicina, con un contemporaneo schiocco tutti i quattro ponti levatoi si alzano di colpo, e il fossato (dove in precedenza famigliole di paperi nuotavano felici e nutrie e lontre si sfidavano in giullaresche e goliardiche gare di inseguimento) diventa un fetido contenitore di liquami tossici tra i quali non manca nè l’uranio impoverito, nè la belladonna e la bruttaciospa, nè l’arsenico arricchito, l’atropina, il curaro, il cianuro, il gas nervosetto e quello intrattabile, la stricnina strictly confidential oltre ad un certo numero di inibitori dell’acetilcolinesterasi. In quel ributtante liquido dal quale si sollevano infernali miasmi si aggirano, protetti dalla loro pelle squamosa, caimani dello Stige, alligatori del Lete, dragoni, enormi scarabei mutanti dalle tenaglie grandi come pale da mulino.

Lancillotto non se ne dà per inteso e, usando la sua lunga lancia come perno, qual basilisco gibilisco si fionda entro una bifora casualmente aperta del piano superiore. Nonostante la sua padronanza dell’arma bianca, del gladio e dei servizi deviati, della durlindana, della flamberga, dell’alabarda terrestre e spaziale, della picca, del tridente, dell’arco, della balestra, della catapulta, delle bombette puzzolenti e dei raudi, non può non impallidire nel trovarsi di fronte quattro giannizzeri in assetto da guerriglia, otto lanzichenecchi tutti palesemente affetti da peste fulminante e quattordici sosia di Gigi D’Alessio. Nel giro di 2’42” (record mondiale non omologabile perché rifiuterà successivamente di sottoporsi al controllo antidoping non volendo mostrare il suo apparato urinario in sconvenienti condizioni di dilatazione da desiderio non esaudito) li uccide tutti, ma gli si presenta davanti un diabolico macchinario opera sicuramente del Mago Merlino, dal quale con diabolica velocità dodici appendici prensili si dirigono verso i suoi testicoli tentando di sfarinarglieli completamente.

Con triplo salto mortale Lancillotto supera l’infernale congegno, mentre la voce di Morgana insiste, e ora le sue parole sono più chiare “Vieni qui Lancillotto, perché io non posso concepire la vita lontano da te, ma eziandio guardati bene dall’amarmi poiché qualunque anelito d’amore si movesse da te, io farò l’impossibile per spegnerlo con gelide secchiate d’acqua e raggelanti enigmi ai quali giammai tu troverai adeguata risposta…”.

E nella penombra, un ingannevole riflesso raffigurante Morgana lo attraversa qual incorporeo fantasma, lasciandolo ad interrogarsi sulla sua sorte. Dal castello sa che non potrà più uscire con le sue sole forze, ma pure il raggiungimento dell’amata appare improba impresa.

E la notte sta già calando sul Territorio Di Là Dall’Acqua………….

Eufemio in Paradiso – Conclusione.

[Riassunto delle puntate precedenti: il clochard Eufemio Torelli viene trasportato in Paradiso come presunta ricompensa per una vita sfortunata e costellata di ingiustizie. Ma non si adatta a quel contesto e viene sostanzialmente emarginato. Disperato, cerca se c’è qualcun altro che si trova in Paradiso ma non vorrebbe esserci. E lo trova, in una misteriosa figura di filosofo eretico col quale però l’accordo è difficilissimo stante la totale inconciliabilità delle loro personalità. Non solo, abbiamo già appreso che il Filosofo conta di servirsi di lui per delle sue mire personali, mandarlo in ispezione all’Inferno per vedere se vale la pena di farcisi trasferire. Non solo Eufemio non sa nulla di questo perfido piano, ma l’improvvisa simpatia che il Filosofo mostra per lui non gli fa suonare nessun sinistro campanellino. Il sagace Filosofo organizza una serie di esplorazioni di mondi lontanissimi per verificare ed addestrare le capacità esplorative di Eufemio. Si inizia con un remoto pianeta freddissimo e inospitale. Eufemio viene reimmesso nello spazio-tempo e non ci sta neanche male. Secondo me cercherà di organizzarsi per non tornare più indietro. Intanto il Filosofo deve rendere conto al principale.]

“Figliolo!!!”. Vi giuro che i tre punti esclamativi c’erano tutti, il Filosofo quasi li poteva sentire. Appena entrato in Paradiso aveva sfidato l’Essere Supremo a singolar tenzone chiedendogli di rispondere ad alcune semplici domande, già sapendo che Lui non si sarebbe degnato. Adesso, finalmente, si degnava. Ma ovviamente quando voleva lui, come voleva lui e per quello che voleva lui. E non avrebbe risposto ad alcuna domanda. E neppure ne avrebbe fatte.

“Figliolo… – e questa volta ai punti esclamativi si sostituivano dei morbidi puntini di sospensione, e anche quelli si potevano sentire. Il Filosofo poteva immaginare (non si sa se per logica o per delle capacità talmente sviluppate di telepatia che funzionavano anche col Motore Universale, ma forse per un equilibrato mix di entrambe le cose) parola per parola quello che gli stava per venire detto – Ovviamente tu ti stavi convincendo che io mi disinteressassi alle tue macchinazioni contro Eufemio. O, addirittura, che non mi fossi accorto di nulla. Se non, eresia ancora più inaccettabile, che in realtà io non esisto neppure come Essere Supremo Che Non Ha Inizio E Non Ha Fine ma non sono altro che, come dite voi altri filosofi e psicoanalisti, ‘un precipitato fenomenico delle fantasie degli uomini’. Qui credo che un umano quanto meno sogghignerebbe divertito, ma questo non rientra nelle mie modalità espressive.

“Figliolo.”. Questa volta c’era un punto fermo. Come per creare una cesura fra il severo preambolo e un enunciato conclusivo la cui severità doveva certamente essere ancora maggiore. “Con le tue brillanti capacità medianiche e telepatiche hai scoperto da solo come funziona l’Inferno, e ci vorresti andare. Ma….”.

Il Filosofo fu tentato di inserirsi in quella pausa teatrale e ad effetto, ma scoprì che era oramai vincolato a una comunicazione a senso unico sulla quale nessuno spazio gli sarebbe stato concesso per obiettare e difendersi.

“Ma sei talmente subdolo e diffidente che non ti fidi neppure di te stesso. E così speravi di poter sfruttare la fiducia che Eufemio ha in te per mandarlo in un viaggio dal quale non avrebbe avuto modo di tornare.

“Su Eufemio ho altri progetti. Quanto a te, sii tranquillo e non temere. L’Inferno cui tanto aneli è esattamente quello che ti è parso di cogliere. I dannati, corredati di un fedele simulacro del proprio corpo mortale con tutti i suoi principali acciacchi (che non guariscono e non peggiorano, stanno lì e si danno un contegno), non fanno altro che ripetere per l’eternità, senza alcuna evoluzione, le scriteriate condotte che li hanno destinati alla Pena Suprema. Altrettanto capiterà a te. Ho finito.”.

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Ora il lettore sa come mai il Filosofo non si era più fatto sentire durante l’avventuroso viaggio dal Paradiso al pianeta Colpodicoda. Eufemio se lo chiedeva, ma senza un’ansia particolare. Gli provocava più apprensione trovarsi contornato ormai da migliaia di abitanti del pianeta, che uscivano dalle grotte sotterranee dove la temperatura era un per loro torrido 30 sotto zero, si arrampicavano sulle creste di ghiaccio e poi slittavano giù come provetti olimpionici di bob. Migliaia di simpatici ovoidi che si aspettavano palesemente qualcosa da lui.

Talmente forte era la loro induzione telepatica (non esisteva alcuna altra razza nell’intero Universo dalle capacità telepatiche anche lontanamente paragonabili con le loro) che alla fine Eufemio si lasciò dolcemente guidare. Non fu un vero discorso, che era del tutto estraneo alle modalità comunicazionali tutte mentali dei padroni di casa; Eufemio si concentrò su una serie di concetti che a lui, nonostante tutte le disillusioni patite, piacevano ancora tanto, e ai suoi ospitanti ancora di più. Amore. Solidarietà. Pace. Tolleranza. Gioia di vivere. Si guardò bene dal trasmettere immagini di sacrifici, màrtiri, martìrii e carni martoriate (anche se gli ballava in mente l’immagine del santo scuoiato con la pelle in mano che c’è nel Duomo di Milano, che da bambino lo aveva terrorizzato a morte), di inferni e paradisi, di giudizi universali, pentimenti e penitenze, di mele che non andavano mangiate e di peccati originali da scontare come i debiti che avevano fatto i politici (per cui ogni bambino innocente italiano nasce col peccato originale e con tot migliaia di euro di debito prima ancora di aver detto “Mamma”).

Mentre trasmetteva un decoroso compromesso fra ciò che realmente pensava e ciò che gli Ovoidi si aspettavano, provava una commozione metafisica e trascendente quale nessun mortale avrebbe potuto provare senza sciogliersi in un pianto dirotto, irrefrenabile e sfrenato, disperato e doloroso.

“Un pianeta intero con cui parlare” gli veniva spontanea la parafrasata citazione finardiana.

“Non ho fatto nulla per meritarmelo, ma non ho neppure fatto nulla per dovermene vergognare” pensava Eufemio, e probabilmente anche questo pensiero arrivava ai suoi ascoltatori.

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“Lo sapevo!”.

Il Filosofo guardava con rabbia le mura della sua cella.

Ripetere per l’eternità, senza alcuna evoluzione, le scriteriate condotte che li hanno destinati alla Pena Suprema…

La scriteriata condotta che gli era stata ascritta non era aver sostenuto che esistono infiniti mondi simili alla Terra. Nè che il concetto di “Gesù figlio di Dio” fosse una sottile metafora e non una realtà. Nè nessun’altra delle supposte eresie che l’Inquisizione gli aveva addebitato.

La scriteriata condotta era il plateale narcisismo che aveva proiettato nel suo processo, pentendosi, pentendosi di essersi pentito, scrivendo memoriali su memoriali che ritrattava il giorno dopo per poi riconfermarli, annunciando abiure che poi non venivano, pronunciando abiure che poi venivano rinnegate, come un qualsiasi imputato di Tangentopoli o del Laziogate.

Nessuno glielo aveva detto, ma Giordano Bruno ora sapeva che la sua pena sarebbe stata un eterno loop del suo processo.

Mentre Eufemio il semplice, Eufemio lo sfigato, Eufemio che piace alle donne ma poi ci ripensano, Eufemio che non gli daresti una lira, era diventato il Messia di un pianeta quasi sfigato come lui, ma adesso libero e felice come lui e insieme a lui.

“Figliolo, spero ti piaccia. Mi sembra giusto precisarti che durerà in eterno e non sono previste crocifissioni.”

Eufemio in Paradiso – Arrivo sul pianeta Colpodicoda.

[Riassunto delle puntate precedenti: il clochard Eufemio Torelli viene trasportato in Paradiso come presunta ricompensa per una vita sfortunata e costellata di ingiustizie. Ma non si adatta a quel contesto e viene sostanzialmente emarginato. Disperato, cerca se c’è qualcun altro che si trova in Paradiso ma non vorrebbe esserci. E lo trova, in una misteriosa figura di filosofo eretico col quale però l’accordo è difficilissimo stante la totale inconciliabilità delle loro personalità. Non solo, abbiamo già appreso che il Filosofo conta di servirsi di lui per delle sue mire personali, mandarlo in ispezione all’Inferno per vedere se vale la pena di farcisi trasferire. Non solo Eufemio non sa nulla di questo perfido piano, ma l’improvvisa simpatia che il Filosofo mostra per lui non gli fa suonare nessun sinistro campanellino. Il sagace Filosofo organizza una serie di esplorazioni di mondi lontanissimi per verificare ed addestrare le capacità esplorative di Eufemio. Si inizia con un remoto pianeta freddissimo e inospitale. Eufemio viene reimmesso nello spazio-tempo e non ci sta neanche male. Secondo me cercherà di organizzarsi per non tornare più indietro.]

Ma poi, lentamente, il nostro amico si rese conto che la pacchia stava finendo: come era stata entusiasmente la rarefazione, quell’apparente spandersi per tutto l’Universo godendo gioiosamente il ritorno nello spazio/tempo, fu lievemente angoscioso il senso di ricompattamento. Quello che per il Filosofo era stato un terribile trauma, la perdita dell’Io fuso e confuso col Cosmo, per Eufemio era stata delizia assoluta ed indiscutibile.

Ma adesso c’era come un attrattore gravitazionale che per alcuni giorni era stato eluso ma adesso gettava sul tavolino con orgogliosa sicumera il proprio atout, e ricomponeva l’aggregato. Era tempo di atterrare.

Il pianeta Colpodicoda ricordava ad Eufemio le visioni natalizie di un forte assuntore di LSD: in una luminosità crepuscolare tendente al rosso cupo (come se il cielo fosse stato vittima di un’improvvisa drammatica emorragia), la superficie del pianeta era perennemente avvolta da una nevicata di gas multicolori, che una miriade di minuscoli geyser restituiva allo stato aeriforme quando toccavano il suolo ma che tornavano allo stato fluido appena si allontanavano dalla fonte di calore. Lontanissima, brillava una stella blu, gigantesca in dimensioni assolute ma minuscola a 16 miliardi di chilometri di distanza.

Gli abitanti, riuniti in festosa delegazione per salutare il nuovo visitatore, erano enormi ovoidi pelosissimi, di fatto la forma somatica più comoda per muoversi sullo strato di ghiaccio che occupava tutto il loro mondo.

La loro trasmissione telepatica era completamente diversa da quella del Filosofo: era soffice, garbata, discreta. Nella mente di Eufemio si formavano delle idee che sembravano sue, ma che lui sapeva benissimo che mai sarebbe riuscito a pensarle da solo, e in qualche modo capiva che erano gli Ovoni, in particolare il loro leader Pioggia Nel Pineto, a provocargliele.

Mentre col Filosofo Eufemio si sentiva molto ma molto stupido, con queste creature si sentiva estremamente intelligente. Ma, soprattutto, sentiva la loro profonda incommensurabile felicità e soddisfazione. Su quello sputino di pianeta, il più remoto del loro sistema ma l’unico abitato (i più vicini alla stella blu erano delle sfere arroventate con laghi di piombo bollente; quelli intermedi erano dei giganti gassosi grandi il decuplo di Giove, perennemente in predicato di innescare la reazione a catena idrogeno-elio, diventare stelle e non pensarci più per qualche miliardo d’anni), con temperature prossime allo zero assoluto in inverno e di -150 Celsius in estate (quando alcuni gas tornavano semifluidi e il cielo da nero tendente al rosso diventava di un bellissimo blu notte, ma questo avveniva ogni 600 anni terrestri, e poi se ne favoleggiava come di una remota età dell’oro per alcuni secoli), su quel pianeta estremo sotto tutti i punti di vista c’era la razza più felice, allegra e giocherellona del creato.

E convivevano gioiosamente col loro mondo glaciale al quale erano perfettamente adattati: una coltre villosa di mezzo metro di spessore, un corpo duttile vagamente ameboide che in condizioni di riposo si presentava come ovoidale ma poteva plasticamente deformarsi per assumere qualunque forma e struttura, una serie di piccoli orifizi che erano insieme organi della respirazione, dell’alimentazione e della sensibilità.

“Chissà cosa si aspettano da me…”.

Eufemio, stenteresti ad immaginarlo. Ne parliamo la prossima volta.

Marooned

Avrebbe voluto piangere avrebbe voluto ridere. Non in sostanziale collegamento con le vicende esterne (che avrebbero dovuto più che altro provocare ed indurre un sonno profondo) ma collegandosi in delicata sintonia con le oscillazioni capricciose umorali caratteriali della sua contorta psiche.

Cazzovuoldire “Marooned”? In qualsivoglia dialetto emiliano si potrebbe tentare un’abborracciata spiegazione, salvo rendersi conto che fra l’Emilia e l’Inghilterra corre una distanza che non è solo chilometrica ma soprattutto simbolica, perchè solo i veri emiliani sanno che la propria terra è una Stargate fra il Nordeuropa e il Mediterraneo, e nessun altra terra europea può gettare sul tavolo un simile atout.

Soprattutto la sua bellissima puttanissima città aveva dimostrato la creatività emiliana, scegliendo una quarta via fra i nipotini rintronati del PCI, una genìa di leghisti alla tortafritta e una malriposta tentazione di ridefinirsi capitale maddechè.

Avrebbe voluto piangere avrebbe voluto ridere avrebbe voluto vivere. Si ricordò il Michele Strogoff di Jules Verne, che i tartari cercarono di obnubilare con una scimitarra arroventata, ma le lacrime che si erano nel frattempo formate fecero da scudo. Allora decise che valeva la pena di piangere. Commuoversi per una donna che aveva creduto di non capirlo. Indignarsi per un’ingiustizia subita da qualcun altro, perchè quelle subite da lui stesso stranamente non gli facevano più alcun male. Percepire il tempo che era passato intorno a un brano dei Pink Floyd. Scelse quest’ultima via.

Il sogno di Palazzeschi.

Ero lì, nel mio candido lettino, quando sento una voce solenne che mi dice con accento grave: “Luca svegliati! Sono Aldo Palazzeschi!!”.

Quando si è un po’ filosofi non si sogna mai a caso: Ero una specie di Diogene, con una lampada da duemila Watt, una macchina fotografica, e cercavo in un posto che poteva essere Milano.
Sento una voce nella nebbia che mi fa:
“Così non fotograferai mai niente!”. Non ci crederete, ma era Aldo Palazzeschi.

 

Insomma, lo sapete che io ho il vezzo di non ricordarmi mai i miei sogni. Ne ho già abbastanza nel decodificare la mia complicatissima vita da sveglio e nel dare senso agli eventi che in essa si succedono (anche se Jean-Paul Sartre continua a dirmi che è fatica sprecata).

Ma comunque, visitato in rapida successione prima da Fabrizio Tavernelli e poi da Aldo Palazzeschi, ho partorito un’opera poetica che rende pienamente conto della ormai irreversibile devastazione che ha luogo nella mia mente.

Rinaldoni si diverte,
lascia andare la sua mente
alle volte inconsistente.

Nato ad Ancona
cresciuto a Parma
poveretto, non disarma:
queste piccole corbellerie
sono la sua icona.

Ormai non le legge più neanche sua figlia
queste abborracciate righe
con tutte le sfighe
di una vita che si assottiglia…

Diamo una definizione
a questa entropica
e utopica
desolazione.

Sono i rumori di fondo
del processo primario,
un consunto sillabario
delle miserie del mondo.

Non è vero che non voglian dire,
è solo che non si lasciano capire…
Facciamo un esempio:

E’ come quando uno
si sente Giorgio Bocca
ma è solo carenza di gnocca
o più banalmente Michele Serra
o il blogger più figo della terra.

Ma dannatissimo eterno adolescente
ditemi un poco una cosa,
non è la vostra una posa,
francamente indecente
considerare immortali
questi scritti banali?

Ma come si deve fare a capire?
Siete un tipo straordinario,
ormai per non impazzire  ci serve un dizionario!!

Ma lui non se ne dà per inteso
e scrive senza alcuna censura.
Di esser scambiato non ha mai paura
per un perfetto cerebroleso?
Lasciate pure che si sbizzarrisca,
anzi è bene che non la finisca.
Il divertimento gli costerà caro,
gli daranno del somaro

Infin la ragione è la mia
e ovviamente son gli altri che han torto
e allor mi si lasci il conforto
di esprimerla senza bugia
la mia sconfinata pazzia.