Archivi Mensili: Maggio 2013

Stairway to Heaven

There’s a lady who knows all is glitter is gold

and she’s buying a stairway to heaven

Quel Paradiso che non coincide con la stucchevole immagine che quasi tutte le religioni ci restituiscono, quasi con l’imbarazzante idea che la vita mortale sia poca cosa, robetta di infimo ordine, prova generale della vita “vera” ipostatizzata in un eterno aspaziale e atemporale che a me, francamente, ha sempre fatto una paura immane.

Quel Paradiso che coincide con il sapere e il sentire, mentre ci si transustanzia e ci si trasfigura da un fascio di energia concentrata a un’energia diffusa e impersonale che può visitare i quattro angoli dell’Universo, che non si tratta di una fine ma di un modo completamente (e laicamente) diverso, ma se possibile ancora più potente (e per te si fa quasi fatica ad immaginarlo) di continuare a stare insieme a chi ti ha voluto bene e continuerà a volertene tantissimo.

Perdonami, Franca, se ogni tanto le parole non bastano.

Parla tu se ne hai ancora voglia.

Atarassia elettorale.

 

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Non so definire bene con quali sentimenti ho atteso l’esito di queste elezioni amministrative.

Di solito sono abbastanza lucido e colorito nelle mie descrizioni introspettive, rese se mai difficili dalla loro multiformità e dal brutale effetto-imbuto nel passaggio da pensiero a parola che è stato oggetto di un mio recentissimo post, per la precisione questo qui.

Ma questa volta non c’è stato alcun effetto-imbuto, più plausibilmente sarebbe servito il proverbiale fatidico lanternino per cercare un’emozione, un abbozzo di curiosità, un qualcosa che assomigliasse ad un sano atteggiamento partigiano e fazioso (illecito solo quando è negato o, peggio, ipocritamente occultato).

Mi dicevo: è il fatto che non eri chiamato a votare, che allora ti saresti emozionato come nella canzone di Gaber e avresti detto “Toh, un abbozzo di primavera, che sarebbe pure ora, ha deciso di presentarsi adesso, non prima e non dopo”.

Non ho la controprova.

Man mano che si snodavano i risultati elettorali (avete notato fra l’altro, rispetto alle sesquipedali surreali topiche di questi ultimi 7 anni,  quanto sondaggisti e anchormen televisivi questa volta ci siano andati con i piedi di piombo, di titanio, di tungsteno nel proporre exit-poll e proiezioni a partire da dati parziali?) sempre in modo vagamente apatico e atarassico registravo una serie impressionante e catastrofica di scoppole del “nuovo che avanza”, una serie altrettanto impressionante di mancate vittorie del partito che tutti davano in impetuosa ulteriore rimonta dopo l’apparente morte clinica di 12 mesi fa, e una sostanziale tenuta dell’ “usato insicuro” che mi suscitava, a questo punto, una incontenibile e quasi imbarazzante sensazione di sollievo.

Le truppe cammellate dell’Ubriaco di Arbore non hanno varcato il Piave. E questo probabilmente grazie al fatto che molti delusi dalla sinistrina attuale, dopo aver provato una apparente sinistra dura e pura, ritornano quietamente all’ovile turandosi il naso e forse anche l’orifizio anale. Non meritano la nostra esecrazione ma una sana riflessione e forse un principio di gratitudine perché una vittoria dello Psiconano sarebbe stata esiziale per l’intero Paese. Per ora è andata così e poteva andare ben peggio.

Mi spiace che Grillo si accanisca contro gli elettori che non hanno creduto in lui con toni pressochè identici al Berlusconi che, prima della sua attuale love-story con la sinistrina riveduta e corretta, letta ma non scritta, chiosava “Chi vota a sinistra non può che essere definito un coglione”.

Concludo citando, e sposando in toto, la conclusione del recente post di Francesco Selis che qui potete leggere per intero godendo, se volete, dei suoi post precedenti altrettanto lucidi e gradevoli:

Quasi sempre una malattia, per poter essere veramente debellata, deve manifestarsi in tutta la sua virulenza, che renda palesi tutti i sintomi. Prepariamoci proprio a questo, quando, a questa incredibile primavera, e a un’estate non rasserenante sul piano sociale, succederà un ‘autunno molto caldo’, o forse molto gelido. Prepariamoci a non spaventarci e ad aver massima fiducia negli anticorpi dell’Italia migliore, quando il terremoto economico e sociale si manifesterà in tutta la sua intensità ora latente.
Più nera è la notte e più vicina è l’alba, dice un vecchio proverbio: quell’alba siamo, dovremo essere, noi.

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Ma ‘sta primavera alòra?…?…?…

 

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Ormai il verso di Battiato (che è un magistrale endecasillabo con un bisillabo incastonato) La primavera intanto tarda ad arrivare* è di fatto superato dagli eventi sociometeorologici.

Dovremmo più a ragione parlare di una primavera bypassata, negata, alienàtaci dalla sorte, rubata, passata per un camino come i bambini di Auschwitz.

Secondo il calendario meteorologico l’estate inizia il 1° giugno senza aspettare il solstizio, e a quella data manca una esigua manciata di giorni. Sono pronto a scommettere che nei primissimi giorni di giugno esploderà una perversa estate tropicale, torrida, rovente, afosa, ustionante, raggi ultravioletti che scavalcano una fascia dell’ozono esausta e boccheggiante e bombardano l’epidermide provocando neoplasie di ogni genere (l’abbronzatura atomica del Gruppo Italiano in voga trent’anni fa? Qualcuno sa o ricorda che il Sole è la centrale nucleare più potente nell’arco di cinque anni-luce?).

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E la Primavera? La Primavera di Vivaldi e di Botticelli, di Luca Carboni e di Marina Rei, dei giardini di marzo che si vestono di nuovi colori, dei timidi romantici adolescenziali innamoramenti (mentre quelli estivi sono carnali e goderecci, quelli invernali cerebrali e meditativi e in autunno di solito ci si lascia?).

Cancellata come una tappa del Giro d’Italia. Ignorata come la volontà di 18 milioni e rotti di cittadini, che debbono subire (senza averlo chiesto e forse neppure immaginato nei loro incubi peggiori da peperoni arrosto) il secondo governo consecutivo che non ha alcun addentellato con gli esiti elettorali. Derisa e sbeffeggiata come le speranze dei disoccupati, sottoccupati, invalidi civili, anziani con la minima bassa come pensione e alta come valori cardiovascolari, laureati a spasso, spazzini laureati.

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* “La primavera tarda ad arrivare” è un endecasillabo dall’armoniosità dantesca, ma la scrittura poetica del Grande Catanese (se Bellini non s’imbrusia) è nervosa e diseguale, più leopardiana che stilnovista, e rifugge dalle armonie banali. Allora, all’interno dell’endecasillabo, ecco che si insinua un “intanto”, la cui prima sillaba si fonde con la parola precedente, creando un “rain” che è quanto mai in tema con la stagione. Le sillabe diventano tredici, un numero che è foriero di fortuna per alcuni, di somme nefandezze ed ingiurie per altri. Rebaudengo, se non la smetti di chiacchierare con Pautasso ti appioppo una nota sul registro, oh basta là…

Ricordando Don Andrea chiediamoci: “Ma esiste Dio?”.

 

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Certo credere che lassù esista un vecchio con la barba bianca come ce lo raffiguravano al catechismo propedeutico alla Prima Comunione, beh… può fare piacere.

Certo immaginare che esista un senso ultimo alle nostre sofferenze di esseri umani, al nostro misero arrabattarci sopra una sfera rocciosa che percorre lo spazio a 30 chilometri al secondo e ruota su se stessa a una velocità di almeno 4 volte superiore a quella di una Formula 1 in pieno rettilineo di Monza, spegne l’orrore della coscienza di quanto piccoli e stronzi siamo rispetto all’enormità e alla complessità dell’Universo.

Certo pensare che tutto quello che succede sia l’adempimento della volontà di un Essere Superiore è confortante, sapendo che il suddetto, in cambio della modica mercede della nostra piena fiducia in Lui, provvederà al nostro sostentamento alimentare ed economico (i protestanti pensano che chi è povero, malato o affamato sconta l’ira divina nei suoi confronti… i cattolici sotto sotto lo pensano anche loro ma non possono dirlo in pubblico).

Certo confidare nell’Essere Superiore ci lascia più tempo e spazio per dedicarci ad attività mentalmente meno angosciose del chiederci che senso abbia stare al mondo una manciata di anni per invecchiare e morire (ammesso che non si finisca sotto un TIR a 13 anni).

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Certo tutte le culture, nessuna esclusa, anche le più primitive, hanno coltivato l’idea di Dio. Ma coltivare un’idea significa che l’oggetto di questa idea è realmente esistente, o puramente e semplicemente che quell’idea ci aiuta a sopravvivere?

Qualunque ricercatore di psicologia della percezione potrebbe spiegarvi che i nostri sensi ci ingannano quotidianamente e ci danno un’immagine del nostro ambiente circostante che non è necessariamente reale, ma solo utile.

Tutti gli esseri umani parlano. Tutti gli esseri umani hanno l’impulso a crescere e a moltiplicarsi (cioè a mangiare e trombare, come semplificava Benigni in uno dei suoi più riusciti spettacoli). Tutti gli esseri umani fanno i conti con l’idea di Dio.

Marx è noto a molti quasi esclusivamente per i suoi slogan, tipo “Proletari di tutto il mondo unitevi”, “Un fantasma percorre l’Europa” e “L’uomo ha creato Dio a sua immagine e somiglianza”. Quest’ultimo aforisma è una forma di ripunteggiatura della sequenza di eventi, dello stesso tipo dell’immaginare il topolino di un laboratorio di etologia che si vanta con suo cugino che nottetempo lo va a trovare “Sai Gigio (perchè quasi tutti i topi fra loro si chiamano Gigio, lo sapevate?), ho addestrato il mio sperimentatore. Ogni volta che abbasso una levetta lui mi dà un pezzetto di formaggio.”.

E’ Dio che ha creato l’uomo o viceversa? E’ possibile che i creazionisti debbano scagliarsi ferocemente contro centocinquant’anni di prove inconfutabili in favore dell’evoluzionismo per la paura fobica dell’idea di essere degli scimmioni appena un po’ più evoluti dei gorilla (e neanche sempre…)? Poi sono loro i primi a criticare gli integralismi islamici, ma neanche Osama faceva una lettura così ottusa del Corano come loro la fanno della Bibbia.

Alla fine mi viene da dire che Dio esiste, come esiste l’amore, la solidarietà, la generosità, come anche pure l’alterigia, l’odio, l’invidia, la gelosia. Dio come idea e come sentimento fa parte della storia dell’umanità. Non mi disturba l’idea che la maggior parte degli esseri umani non riescano a sopravvivere senza coltivare l’idea di Dio.

Mi disturba, però:

  • Il fatto che in nome della propria personalissima e arbitraria immagine di Dio si uccida, si aggredisca, si prevarichi chi ha di Dio un’immagine diversa;
  • Il fatto che la fantomatica “parola di Dio” sia usata per giustificare o accentuare sperequazioni, ingiustizie, malefatte, speculazioni e intrallazzi privati;
  • Il fatto che il Vaticano tratti lo stato italiano come se fosse una teocrazia medievale;
  • Il fatto che il Papa debba essere un personaggio mediaticamente così sovradimensionato sia che ne abbia le prerogative (Wojtyla, Bergoglio) sia che “meglio non parlarne” (Ratzinger).

Buon accostamento al vichènd.

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Ma quanto soffre il latte quando deve diventare formaggio?

FA0268-Latte-1024x682A volte è spiacevole la netta percezione dello strettissimo imbuto attraverso cui deve passare il pensiero, che di suo è torrenziale e magmatico, per diventare parola.

Chissà come soffre il latte quando deve diventare formaggio, processo nel quale la sua adamantina purezza si corrompe di sale, erbe più o meno esotiche, caglio, eccipienti vari e chissà quante e quali altre diavolerie tecnoindustriali postmoderne e la sua fluidità viene bloccata a vantaggio di legami che vanno da quelli deboli dello stracchino a quelli intermedi della caciotta a quelli spietati del grana padano che si spezza, si sbriciola, ma orgogliosamente non si piega più.

Se non che, le gocce di latte sono tutte uguali e interscambiabili, e dove andranno a finire nella struttura solida del formaggio non conta assolutamente nulla.

Mentre, invece, il passaggio fra la struttura quantistica del pensiero (in cui ogni segmento si collega con tantissimi altri, nelle psicosi meglio riuscite anche con tutti gli altri in saporitissime insalate logiche) e quella meccanicistica sequenziale della parola è assolutamente feroce ed impietoso.casu_marzu_570

Allora, o ci si riduce a piccole emissioni di frasi elementari che alludono a bisogni primari di tipo biologico (e a volte sarebbe perfino meglio) o quando si rischia e ci si avventura in sequenze più lunghe, la quantità di informazione persa per strada (applicazione alla Teoria della Comunicazione della terza legge della termodinamica) è ingente.

Tant’è che gli psicotici meno creativi diventano catatonici o tutt’al più ebefrenici, e solo gli schizofrenici non si arrendono e in ogni loro messaggio bruciano nel sacro fuoco dell’impossibile tentativo di un’espressione “assoluta”.

Certo, sto parlando da solo ma è come se per caso passasse qualcuno che ascolta, cerca di capire e (in modo assolutamente logico e legittimo) inquadra e incasella quello che sente nelle sue categorie epistemologiche, e io con la coda dell’occhio capisco quello che sta succedendo. Potrei smettere di parlare di colpo e magari chiedere con tono un po’ sprezzante “Dica un po’ lei, ha bisogno?” ma invece continuo.

imagesSto parlando di quel potenziale nucleo psicotico che  probabilmente milioni di persone in giro per il mondo si portano appresso, forse anche la maggioranza.  Col sottile paradosso che quando pensi di essere pazzo non lo sei, perché il vero pazzo è come l’ubriaco che procede contromano in autostrada e a un bel momento telefona alla stradale per denunciare che ci sono centinaia di matti che hanno sbagliato corsia.

Un nucleo psicotico potenziale e non attivo perché riconosciuto e tenuto sotto controllo. E’ quel nucleo psicotico che si esprime nei sogni, nella creatività, nei cortocircuiti sottesi alle battute di spirito ben riuscite, nelle estasi mistiche e in alcune conversioni non di comodo e spesso inesplicabili anche per il diretto interessato. E sicuramente nell’innamoramento, che più è cieco, disperato e illogico più è profondo e autentico, tant’è che ci si innamora spesso e volentieri di persone che è chiaro a qualunque osservatore esterno che ti distruggeranno e passeggeranno sghignazzando sulle tue ceneri. Ma lo stesso lo si fa.Caci

Il beffardo destino dell’intellettuale vero o presunto, sedicente, poco seducente, poco attraente e quasi mai attinente.

imagesCA0E8GYPCom’è strana e perfida la solitudine straziata dell’intellettuale o presunto tale in questi tempi ignoranti e ondìvaghi; di colui che per annosa e patologica abitudine filtra i sentimenti e le emozioni al vaglio spietato della ragione e muore schiacciato da un Super-Io incredibilmente sadico.

Ogni tanto il bambino spaventato che c’è in lui emerge e solleva la testa ma non sa più che dire perché si sente insignificante ed inascoltato.

Nel tempo l’intellettuale o presunto tale ha costruito una splendida cattedrale nel deserto, piena zeppa di ricordi e povera di desideri (quello che ci doveva essere in fondo c’è già stato, ha avuto solo il brutto vizio di finire troppo presto).

L’intellettuale o presunto tale ha imparato a far fluire le lacrime verso l’interno in modo che non si vedano e non lo facciano figurare male; non conosce più piacere e dolore perché vive in una perenne sospensione del giudizio e del sentimento. 47527

Solo ogni tanto deposita un po’ della sua cattiveria su chi probabilmente se la merita, ma anche probabilmente no: basta che non gliene resti dentro troppa. Perché la cattiveria alla fine si disperde nell’ambiente ed è altamente biodegradabile; tenuta dentro fa molto male, produce sintomi isterici e dolorose somatizzazioni.

L’intellettuale non sa più scrivere lettere d’amore, o forse non sa più scrivere lettere tout-court. Quando scrive lettere d’amore è anche molto bravo, ma poi gli resta l’insormontabile problema di reggere e convalidare nella vita reale le rutilanti cose scritte nella vita reale, e allora non solo ha smesso di scriverle, ma ha smesso di costruirsi situazioni che rendano penosamente inevitabili le suddette lettere.

getmediaPerò, narcisisticamente, ne tiene copia e ogni tanto le rilegge senza ricordarsi troppo bene a chi le ha scritte e perfino perché, ma Dio come suonano bene!

E poi, a che pro un simile profluvio di intelligenza e passione (passione?) per una donna che è già pronta a giudicarlo per come si veste o notare un leggero cedimento della tomaia in quel paio di scarpe che lui trova così comode? Diciamocela poi tutta, non è che ne valga la pena…

Adora invece scrivere in modo impersonale usando se possibile la terza persona: ma anche quando usa l’io, è un Io talmente sfaldato e permeabile che nulla se ne potrebbe dire.

Chiede che si prenda atto e lo si lasci nella sua splendida orgogliosa catastrofe. E’ meglio sopportare gli oltraggi, i torti, le ingiustizie che la vita ti riserva (e certe volte anche la sfiga), o prendere l’armi contro un mare di problemi e combattendo disperderli?

E’ meglio sopportare le prese per il culo dei mediocri o trovare il modo di dar loro una lezione,  o anche solo fargli una lozione, o limitarsi ad un’allusiva illazione, anche se questo significa la propria definitiva rovina?

E’ meglio amare una disadattata che altro non ha se non il suo sex-appeal, o una adattata a forza che del suo sex-appeal si vergogna? imagesCACL6BD8

E’ meglio barcamenarsi lungo oscure stanze di vita quotidiana o morire nella gloriosa fiammata di una trasgressione senza ritorno?

Queste, e tante altre, sono le questioni che segnano le giornate dell’intellettuale o presunto tale: questioni alle quali non troveremo risposta, perché sappiamo bene che il fascino del viaggio non è nell’arrivare ma nel viaggiare pieni di speranza; e che i tuoi desideri è bene che non si avverino mai, perché qualora lo facessero rivelerebbero la loro clamorosa distanza dal sogno.

E così, ci consegnamo inermi alla vecchiaia, anno dopo anno inseguendo i nostri angusti e vetusti ideali, i nostri incrollabili principi, i nostri irrinunciabili modi di essere, di vivere, di pensare. Che visto che è un po’ che non li mettiamo in lavatrice emanano una certa quale imbarazzante irreversibile puzza di stantio.

 

 

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Disperato messaggio alieno.

 

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Un saluto cordiale a tutti i Terrestri.

Il mio nome, nella fonetica del mondo dal quale provengo, assomiglierebbe allo sbattere ritmico della coda di un castoro gigante del Minnesota sul tronco di una sequoia nana del Wyoming, ma tentando una traslitterazione nella fonetica del mondo che sto esplorando, che sarebbe poi il vostro, potremmo renderlo con un Zrcadlowutki 8231°. E il cerchiolino finale non indica un numero ordinale ma allude alla temperatura Celsius dei miei organi interni.

quanti_alieni_ci_sono_nell_universo__3912Se dovessi tornare indietro sul pianeta il cui nome originario assomiglia a un refolo di ponentino che si insinua nella dentiera di Gigi Proietti, ma che potremmo rendere con un più terrestre Castelparadossale di Sotto, con una relazione incompleta, la prassi vuole che agli esploratori inadempienti vengano amputate sedici appendici ambulacrali e ventisei arti prensili. Il che non comprometterebbe la funzionalità quotidiana del punito ma ne altererebbe irreparabilmente la dimensione estetica, che per noi (a differenza di quanto parrebbe accadere per voi) è fondamentale e prioritaria.

Essendo una forma organica in base silicio, ho potuto comunicare direttamente con quella che una volta chiamavate correttamente Madre Terra (e fareste bene a ripristinare codesto appellativo), che me ne ha dette di tutti i colori su di voi e sulle vostre strane abitudini.

Mi corre l’obbligo di comunicarvi che la vostra Genitrice Geologica sta mandandovi una serie progressivamente crescente di segnali di fastidio, che voi nel vostro antropocentrismo in base carbonio vi ostinate a definire “catastrofi naturali” quando invece dovrebbero ricordarvi la testa di cavallo mozzata piazzata in pieno letto di chi ha saltato la terza mensilità consecutiva del pizzo. Vedete un po’ di regolarvi perché il passaggio dai segnali di fstidio alla rappresaglia vera e propria potrebbe avere dei risvolti, come dire, un po’ imbarazzanti.nella_via_lattea_ci_sono_10_miliardi_di_pianeti_abitabili_6107

Ma quello che mi dovreste, se potete, spiegare è la situazione politica italiana. Alla quale gli Italiani sembrano perfettamente assuefatti e rispetto alla quale non mostrano alcuna meraviglia.

Da quello che sono riuscito a capire, in quel Paese di antica e gloriosa civiltà, il partito arrivato terzo alle elezioni e completamente controllato da un pluri-inquisito (a cui su Castelparadossale di Sotto troncherebbero d’un sol colpo appendici ambulacrali e sessuali, arti prensili, organi di senso, apparati radar, ogive nucleari biomeccaniche lasciandolo sotto forma di icosaedro privo di asperità però immortale sì che si crucci e si compianga per l’eternità) continua a promettere un mondo in cui si pagheranno sempre meno tasse e i servizi pubblici, l’istruzione, la ricerca, la sanità, il welfare sorgeranno e cresceranno per germinazione spontanea dalla bontà del Dominus Absol(u)tus, una volta che costui sia stato assolto dagli 815 capi d’imputazione ancora contro di lui iniquamente pendenti.

E, attraverso lo strumento (che noi Castelparadossaledisottani stentiamo a capire e anche solo a concepire) dei sondaggi, in attesa che si possa arrivare a votare col televoto attraverso il telecomando domestico, si rileva che aumenta ogni giorno il numero di persone disponibili ad abbandonare ogni considerazione logica, estetica, razionale, giudiziaria, giuridica, etica, morale, gastronomica, zootecnica e a dare non tanto e non solo  a questo pifferaio ai cancelli del tramonto il voto, ma forse anche lo jus primae noctis della propria figliola tredicenne, le chiavi della Punto di terza mano e la collezione del Corrierino.

Aiutatemi, fratelli terrestri, a sciogliere questo irrisolto mistero, e fatemi tornare su Castelparadossale di Sotto sicuro di conservare la mia integrità somatica.  

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Lectio elementaris sul nichilismo e il masochismo morale.

 

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Si vive un po’ tutti con quieto e saggio fatalismo, nell’ applicazione del principio leibniziano che questo sia “il migliore dei mondi possibili”. Ma poi lo è? Io vivo parte della mia vita (approssimativamente la metà) abbronzandomi al sole dell’utopia, ed un altra parte (approssimativamente la metà) a curarmi le scottature.

Già, perché il sole dell’utopia non è più quello di una volta, e forse non basta più viaggiare per sentirsi degli zingari felici, o meglio non è più possibile viaggiare pieni di speranza piuttosto che arrivare, perché adesso tutti i viaggi devono avere una destinazione e una logica, e i vagabondaggi fisici e mentali verranno senza pietà stroncati.

Il sole dell’utopia passa indisturbato nel buco nell’ozono che il tempo ha ritagliato nelle nostre difese, e invece di giovarci ci uccide. Produce nei casi più innocui pericolosi eritemi culturali, ma spesso displasie emozionali, neoplasie affettive, aplasie esistenziali. E queste complesse e dispettose formazioni pseudotumorali quando sono penetrate nella coscienza si comportano oncologicamente, si replicano e si moltiplicano in un doloroso gioco di specchi. E allora credi di vedere te stesso ma in realtà vedi il prodotto delle tue contraddizioni. Credi di avere a che fare con te steso ma in realtà hai a che fare con un cumulo ormai post-umano di spazzatura ideologica. Sei un accumulo di ricordi, una galleria di citazioni, una confezione-dono di ammiccamenti e allusioni ma, guardati bene intorno, nessuno capisce il senso di quello che comunichi o credi di comunicare.

Per “lutto” si intende tradizionalmente il sentimento disforico conseguente alla morte di una persona cara o, in senso traslato, ad una repentina e inopinata perdita e, forzando ulteriormente i limiti semantici del concetto, ad un cambiamento improvviso e percepito come inaccettabile. Il tuo lutto è autocentrato e legato alla tua ormai inarrestabile dissoluzione come emittente di messaggi dotati di senso.

Ti restano due alternative, nessuna delle quali ti tenta esageratamente:

  1. Produrre messaggi comprensibili per chi li recepisce, ma totalmente privi di senso per te, oppure,
  2. l’esatto contrario, produrre messaggi pieni di senso per te ma suscettibili di essere totalmente fraintesi da chi li riceve.

Ma alla fine indulgi copiosamente sia in 1. che in 2., così, tanto per pensare di esserci ancora.

 

Per “elaborazione del lutto” si intende invece l’attività di ristrutturazione cognitiva che permette, a colui che vive quel sentimento, di gestirlo adeguatamente, o quanto meno in modo che non invada completamente la sua vita. Si tratta di un processo mentale, lungo e complesso, che conduce a un consapevole rassegnarsi alla perdita patita. Rassegnarsi alla fine è infinitamente meglio che disperarsi. La disperazione è una speranza viva e brulicante che non trova sbocchi. La rassegnazione è una speranza ibernata. Congelata a 120 sotto zero in attesa che valga la pena di risvegliarla e farla di nuovo dispiegare. Ma nel frattempo, facciamo sì che non prenda colpi che le sarebbero certamente letali.

E nel frattempo al Dott. Rinaldoni nulla può fare male perché lui guarda il mondo dall’alto con sovrano distacco e perfino un principio di snobistico disprezzo; a Luca nulla può far male perché lui guarda il mondo dal basso, dal Regno degli Sconfitti Rinunciatari con sovrano distacco e, appunto, più che un principio di rassegnazione… 

Per fortuna lo aspettano  una decina di  improrogabili impegni, tra cui il riordino della sua collezione di penne Bic, il drenaggio del bagno allagato, la preparazione di un succulento rognone trifolato e il 56° tentativo di rifare l’arpeggio di De Andrè nella Domenica delle Salme, che riempiranno il suo tempo libero da attività lavorative o affini.

 L’universo intero gli sta sui coglioni, ma la cosa è reciproca e comunque ha cominciato lui (nel senso dell’universo).

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Un’altra scheggia impazzita dall’arcipelago della disperazione.

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Luigi Preiti detto Gino aveva studiato freddamente e quasi cinicamente il suo gesto: si era “dressed to kill” alla Brian de Palma, forse per confondersi tra la folla o forse perché era sicuro di morire e voleva venir bene nelle foto; aveva sparato come si spara in un poligono di tiro e il GIP sembra non aver avuto il minimo dubbio che avesse sparato per uccidere.

Adam Kabobo fa parte come Luigi Preiti del variegato arcipelago della disperazione e del disordine mentale che nè welfare nè psichiatria nè Caritas nè solidarietà umana può contenere e addolcire, ma è se possibile in un’isolotto ancora più brullo (e sostanzialmente deserto) di quello di Preiti. 

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Adam non doveva più essere in Italia, se qualcuno lo avesse (con dolcezza, non c’era motivo per usare la violenza o la sopraffazione) messo sul primo aereo disponibile per Accra non credo che si sarebbe ribellato.

La sua vita italiana era tristemente sub-animalesca: un vagabondaggio quotidiano alla ricerca di cibo e riparo  nella giungla metropolitana di una città che una volta aveva il cuore in mano, oggi non so quale purulento organo interno possa ostentare alla massa informe e indistinta dei poveri, che ogni giorno si allarga ed erode altre vecchie sicurezze. Davvero lasciarlo libero di vivere la sua condizione di ultimo fra gli ultimi è stato più umano e meno violento che metterlo in condizione di non nuocere, dopo che si era già segnalato come un “disperato doc” senza alcuna capacità lavorativa e alcuna inclinazione all’integrazione

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La clandestinità non è un reato, dice un ministro di colore che parla un italiano migliore ed ha capacità logico-concettuali enormemente superiori a quelle della quasi totalità dei militanti leghisti e ragiona mediamente molto meglio di loro (non che la cosa richieda uno sforzo immane).  E infatti non lo è.

Mentre per Luigi Preiti i dubbi tra una sostanziale pazzia e un’assoluta disperata lucidità sono tantissimi, per questo vuoto a perdere umano non esiste dubbio alcuno su una condizione di assoluto disadattamento e inadeguatezza agli standard minimi di convivenza. Ma non c’è bisogno di essere San Francesco per chiedersi e chiedere a chiunque voglia rispondere: “E’ colpa sua? O colpa del ministro Kyenge?”.

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Adam Kabobo doveva arrangiarsi come deve fare quotidianamente una fetta vergognosamente enorme di Italiani, in un Paese allo sfascio che non dà più nessuna garanzia per nessuno.

Il problema non è il colore della sua pelle e neppure la sua condizione di clandestino.

Il problema è una città, un quartiere, dove una persona che ha perso il lume della ragione (toh, a volte succede, anzi se dobbiamo dirla tutta è un assoluto miracolo che capiti così raramente) può vagabondare per due ore armato, sia pure all’alba, aggredendo sei persone, ammazzandone una e ferendone due gravemente e altre due a livello di una normale zuffa da stadio (dove eccellono di solito bresciani e bergamaschi di pura razza ariana) prima di venire bloccato dalle forze dell’ordine.

Il problema è uno Stato che ha costruito una burocrazia talmente ispida e contorta che si può essere “clandestini riconosciuti come tali ma non espellibili”  per periodi intollerabilmente lunghi in attesa della discussione di un ricorso (e in quei periodi non potrai chiedere un lavoro nè una casa e verrai implicitamente invitato a cavartela come puoi per sopravvivere in un paese che non ti vuole, e potrebbe anche in questo aver ragione, ma contemporaneamente non ti rimanda a casa).

Il problema è una destra che cavalca la vicenda di questo miserrimo poveraccio per lucrare (o pensare di lucrare) una credibilità e una presentabilità ormai persa da tempo: in questo la reazione del quartiere, che lungi dal supportare (o anche solo sopportare) l’antiestetica sgradevole presenza del Disonorevole Borghezio lo ha sonoramente contestato, è esemplare.

Il problema, che questa agghiacciante pagina di desolazione urbana ha dipinto con crudele fedeltà, è un Paese in cui siamo in tantissimi a sentirci disintegrati, disperati e incazzati, indipendentemente dalla razza, l’etnia, il colore della pelle, il buon diritto o meno a stazionare sul territorio nazionale,  il censo, la religione, il credo politico e il gruppo sanguigno.

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Piove, governo delle larghe intese…

“E’ meglio tacere dando l’impressione di essere un po’ scemi che aprir bocca e togliere ogni dubbio”.

Credo sia una massima di Indro Montanelli ma potrebbe anche essere un aforisma di Ennio Flaiano, colui che disse già 40 anni fa “In Italia la situazione è perennemente disperata ma mai seria”.

Bisognerebbe avere la capacità di indignarsi che, lo ammetto io per primo, sta venendo meno. Subentra, specie in chi è drammaticamente lontano dai vent’anni (e se è per quello anche dai trenta e dai quaranta) una pericolosa rassegnazione da ipersaturazione di stronzate: un misto di anestesia/mitridatizzazione del tutto inconscia, e di una consapevolissima percezione che la deriva entropica della politica, della comunicazione e della vita sociale ha imboccato la via del non ritorno.

L’invito a tacere piuttosto che sembrare scemi è a doppio taglio e a doppia destinazione: in un trasparente processo di scissione/proiezione è destinato al Male Esterno (“Piove, governo delle larghe intese…”). Ma in tutta onestà a volte vorrei e dovrei urlarla controvento così che mi tornasse indietro e mi si appiccicasse addosso, perché di stronzate ne dico e ne faccio anch’io. Ma almeno non faccio finta di dirle e farle in nome del Popolo Italiano (“Ma io senza legge rubai in nome mio, quegli altri nel nome di Dio…“).

Ciò scritto, non mi resta che augurarvi un variopinto gradevolissimo vichènd.

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Se si ritorna significa quanto meno (a) che si hanno ancora gli strumenti dinamici per trasmigrare da un punto all’altro e (b) che si possiede ancora una mappa. Ma pensandoci meglio il punto (b) può essere omesso, delle volte si ritorna per puro caso e, dopo aver detto “Ma dài…” si decide di trattenersi. Quanto a lungo non si sa.

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Se si ritorna significa quanto meno (a) che si hanno ancora gli strumenti dinamici per trasmigrare da un punto all’altro e (b) che si possiede ancora una mappa. Ma pensandoci meglio il punto (b) può essere omesso, delle volte si ritorna per puro caso e, dopo aver detto “Ma dài…” si decide di trattenersi. Quanto a lungo non si sa.

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Annamaria - liberi pensieri

Se si ritorna significa quanto meno (a) che si hanno ancora gli strumenti dinamici per trasmigrare da un punto all’altro e (b) che si possiede ancora una mappa. Ma pensandoci meglio il punto (b) può essere omesso, delle volte si ritorna per puro caso e, dopo aver detto “Ma dài…” si decide di trattenersi. Quanto a lungo non si sa.

TerryMondo

Se si ritorna significa quanto meno (a) che si hanno ancora gli strumenti dinamici per trasmigrare da un punto all’altro e (b) che si possiede ancora una mappa. Ma pensandoci meglio il punto (b) può essere omesso, delle volte si ritorna per puro caso e, dopo aver detto “Ma dài…” si decide di trattenersi. Quanto a lungo non si sa.

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...e navigando con le vele tese io sempre cercherò il mio orizzont

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