Le Due Terre

 

 

 

A Gabicce, Marche e Romagna si incrociano senza capirsi.

Da una parte il divertimentificio cattolicense in cui il mare diventa un garbato pretesto, dall’altra paesaggi mozzafiato e stradine dall’aria inesorabilmente e piacevolmente vintage.

In mezzo, il torrente Tavollo ed un simpatico ponticello levatoio che fa da stargate fra due universi paralleli.

Si alloggia in un hotel in pendenza, con l’entrata sul mare due piani sotto a quella che guarda il centro del paese.

In omaggio alla incombente Romagna, però, nonostante l’asperità naturale che (vedi Riviera del Conero) indurrebbe ad aspettarsi spiaggia sassosa e mare subito profondo, la spiaggia è morbidamente sabbiosa e il mare permette, o costringe a, lunghe indolenti camminate prima di poter esplodere in uno scenogragico crawl senza incagliare il braccio di richiamo nel fondale. 

A Gabicce Monte se si danno le spalle al mare sembra tranquillamente di stare a Bosco di Corniglio,

l’arrampicata aiuta a decantare i lauti pasti in albergo ed agevola pensieri sull’Infinito.

 

Ho trovato una certa somiglianza fra queste due sitazioni.

Italian PM Giuseppe Conte at the G7 Leaders Summit in Canada

“Hey, fellas… Watch over here… Joe Conte, the guy from Italian Parliament…”.

Auf wiedersen

Ahi serva Italia di dolore ostello.

E capirai che una sera o una stagione

Son come lampi, luci accese e dopo spente.

Francesco Guccini, La canzone della bambina portoghese.

Anche il governo Lega – 5 Stelle, che sulla carta gode della fiduciosa attesa di 16 milioni di elettori o, direbbero loro, “di un italiano su 2”, si è spento subito e in modo irreversibile alle soglie del giuramento. Formalmente, per una non disponibilità al compromesso di entrambe le parti contraenti (Quirinale e potenziale maggioranza parlamentare) sullo scandaloso nome di Paolo Savona. Nella sostanza, per una inconciliabile incompatibilità fra il contesto politico bizantino ed incartapecorito che Mattarella rappresenta, e un “nuovo che avanza” intollerante ed ipersemplificatorio. Difficile decidere dove stia il meglio e il peggio.

Però non si può negare che Mattarella abbia dato largo credito alla strana coppia, abbia sopportato con apparente pazienza i loro continui rinvii, abbia fatto finta di non accorgersi della profonda irritualità del loro modo di procedere e della sostanziale mancanza di rispetto che destinavano non tanto a lui come persona (avrebbero avuto la medesima improntitudine con un Cossiga?) ma al ruolo che, esplicitamente, la Costituzione riconosce al suo ruolo istituzionale. La mia impressione è che Mattarella abbia superato mille perplessità in nome del rispetto per l’elettorato, che ha espresso una disperata necessità di cambiamento, quasi di “azzeramento” di una politica che è solo far carriera (e aiutare il finale di carriera dei papà).

L’atteggiamento dell’ircocervo gialloverde, viceversa, oscillava tra un drastico “Scansati, pirla!” e una melliflua riedizione del “Maestà, vi porto l’Italia di Vittorio Veneto”. E, torno a dire, spiace vedere che due movimenti post-partitici che un anno e mezzo fa avevano urlato che la costituzione non si toccava oggi dimostrino di non averne la minima contezza. O volevano solo fare un dispettone a Renzi?

E mo’, Moplen, avrebbe chiosato il grande Gino Bramieri. Mattarella, dopo un goffo discorso in cui esplicita un sospetto che tutti avevano (ma riconosciamogli l’onestà intellettuale), cioè che qualunque governo italiano deve rassicurare l’Europa e gli investitori esteri, annuncia in stile preside vecchia maniera “Nelle prossime ore assumerò un’iniziativa”. Che si è rivelata un incarico di governo a una sorta di commissario straordinario (ruolo previsto per le amministrazioni locali ma abbastanza atipico per il governo nazionale), Carlo Cottarelli esperto di spending review, cioè banalizzando molto quel processo di filtro della spesa pubblica che di solito lascia inalterate le spese militari e i benefici dei parlamentari schiaffeggiando istruzione, sanità e welfare.

Di Maio, spalleggiato scaltramente dalla Meloni, ha invocato l’impeachment (o impescamento, all’italiana) dando la mazzata finale a qualsivoglia possibilità di intesa con Mattarella e aizzando le sue squadre telematiche a ogni sorta di ingiuria contro quest’ultimo.

Cottarelli, allo stato attuale, potrà avere i voti di parte del Pd (talmente simile alla vecchia Dc, però, che le correnti confliggenti producono burrasche costanti), forse di Leu e quasi sicuramente di Più Europa (eh sì, ne gh’n’è miga a basta, chioserebbe il giornalaio di Piazzale Santa Croce) e non so di chi altro.

Poi, elezioni forse già a fine agosto, con ulteriore crescita della Lega largamente prevista e un tasso aumentato di ingovernabilità. Ma davvero non si poteva scendere a qualche ragionevole compromesso per cominciare a governare? No, eh?

 

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Votare a giugno?

 

 

 

La Casaleggio Associati si è infilata in un grottesco cul de sac ipotizzando il voto a giugno.

1. Prima di tutto, l’ipotesi di andare ad un voto super anticipato, diciamo 4 anni e 8-9 mesi prima del previsto, dovrebbe essere un’extrema ratio, e invece la Casaleggio Associati, per bocca del suo impeccabile portavoce Luigi Di Maio, ne fa un’esigenza prioritaria.

Ora, sui costi delle ultime elezioni non abbiamo ancora dati, ma quelle del 2013 sono costate circa 389 milioni di euro, cioè 753 miliardi e 209 milioni traducendo in lire, operazione che ogni tanto mentalmente faccio e mi aiuta ad una doverosa parsimonia.

6 euro per ogni italiano neonati ed evasori compresi, si potrebbe dire.

Lo 0,02 per cento del PIL, se si vuole minimizzare. Tsè, pfui, tsk, irrilevante… Ma sempre 389 milioni di euro restano. Fate voi. È morale spenderli di nuovo dopo tre mesi? Oh, Casaleggio Associati, dico a voi.

2. Far dire al buon Di Maio che quello di giugno sarebbe una specie di “ballottaggio” è un vile attentato alla sua immagine pubblica, a meno che non sia in atto una sorta di competizione con Salvini a chi sparla meglio (tarando opportunamente le dichiarazioni rilasciate da quest’ultimo durante le sue reiterate scorribande a Vinitaly, oppure al contrario mettendole in evidenza per la serie “in vino veritas” o, in termini più psicodinamici, “il Super-Io è solubile in alcool”). Nessuna legge dello Stato prevede un simile scenario. In aggiunta, dallo scioglimento delle Camere, devono passare almeno due mesi per permettere le complicatissime operazioni del voto all’estero. A luglio ed agosto non si è mai, giustamente, votato.

Casaleggio Associati, so che cambiate programmi (e rinnegate a volte anche le scelte dei candidati via web) con enorme facilità, ma forse le leggi dello Stato di cui sopra per essere modificate richiedono un dibattito parlamentare con un governo già insediato. Secondo me, almeno…

3. Tornare alle urne con il Rosatellum riveduto e corretto, che è in vigore, produrrebbe un risultato quasi matematicamente molto simile a quello che abbiamo di fronte. A meno che si smetta di applicare ad un sistema proporzionale, in modo non so se superficiale o denunziante grande mala fede, una logica da maggioritario puro o, nei casi più eclatanti, da campionato di calcio. Ma escludo che succeda. E dopo di che? Veh, Casaleggio Associati, sempre con voi ce l’ho…

4. Molto meno scandaloso sarebbe formare un governo transitorio ma operativo per approvare una legge elettorale più funzionale. Auspico che succeda ma ci credo poco. Altrimenti si vota nel 2023 perchè lo dico io.

 

Parma capitale?

È vietato scandalizzarsi. È vietato usare le armi di una sarcastica irritazione.

È vero: Parma è in sostanziale decadenza, ma come praticamente tutte le Grandi Città Italiane. È sporca, degradata, meta di una migrazione fuori controllo, discretamente spietata verso chi resta indietro, innamorata del Dio Denaro e dell’apparenza, con pretese di europeismo ma nella realtà tendente ad un provincialismo autoreferenziale.

Negli ultimi 30 anni è periodicamente salita agli onori della cronaca per episodi violentemente criminosi, tanto da indurre Michele Smargiassi di Repubblica a etichettarla sbrigativamente (nell’annus horribilis 2006) “l’Aspromonte del nord”.

Ha conosciuto il crack forse più clamoroso dell’intera storia industriale italiana; ha subito senza accorgersi di nulla un’amministrazione comunale che prometteva metropolitane, espansioni urbane, e quando si è liquefatta sotto il peso delle denunce e degli arresti ha lasciato in graziosa eredità 4.338 euro di debito per ogni cittadino residente; ha visto implodere la squadra cittadina dai trionfi europei alla Quarta Categoria; tre mesi fa “Striscia la notizia” ha mostrato Piazzale della Pace by night regno incontrastato degli spacciatori (e per gli amici non parmigiani non si tratta di periferia degradata, siamo a due passi dalla bellissima piazza del Comune e dal Duomo). Last but not least, ha visto spendere danaro pubblico in incubi architettonici come il restyling di Piazza Ghiaia e l’imbarazzante Ponte Nord che sembra uscito dalla fantasia di un Salvador Dalì in acido.

Ebbene, Parma è anche questo ma non solo questo. In un succinto “stato” su facebook, nel compiacermi di questo riconoscimento, lasciavo intuire che mi sembrava fortunoso e non pienamente meritato. Poi ho letto che il suddetto riconoscimento è giunto all’unanimità, non per un incollatura o un goal in fuorigioco a tempo scaduto.

E allora mi sono detto che è un destino di questa città, dentro o intorno alla quale (Medesano, Langhirano, Fidenza) ho vissuto due terzi della mia pittoresca vita, di far innamorare il visitatore esterno e di far perdere la pazienza agli indigeni. Ma forse è il destino di molte altre città che conosco molto meno bene. Non essendo indigeno, al massimo indigente ma anche indulgente, continuo ad oscillare fra questi due stati d’animo. E mi piace ricordare quanta bellezza, quanta intelligenza e quanta storia ha prodotto questa benedetta città, da Arturo Toscanini ad Attilio Bertolucci e famiglia, da Giuseppe Verdi a Giovannino Guareschi, da Bruno Mora a Vittorio Adorni, dal primo Bevilacqua a Paolo Nori, da Giorgio Olivieri ad Andrea Menozzi, e poi tuffiamoci nel passato verso Bodoni, il Correggio, il Parmigianino, Fra’ Salimbene,

 

Macerata.

Macerata guarda il resto della provincia con aria leggermente indifferente, un po’ di lato.

Le Marche, essendoci nato e cresciuto fino ai 18 anni, e poi ritornato a cadenza uniformemente decelerata nel corso degli anni, le conosco abbastanza bene. E non sono facili da descrivere e da spiegare. Nella loro struttura accidentata sono una collezione di etnie, di dialetti, di riferimenti, nascondono capolavori architettonici e paesaggistici nei punti più impensati e fondamentalmente sono una terra franca fra nord e sud, che a nessuno dei due si apparenta.

Macerata è un misterioso gioiello atopico e utopico, svagatamente atemporale, che cela incredibili mirabilie come lo Sferisterio, piazza della Libertà nella sua assoluta integralità, il monumento ai caduti che ha un respiro e un’imponenza fuori del comune, palazzo Buonaccorsi, il Duomo, la basilica-bonsai, la visuale mozzafiato da viale Puccinotti, i vicoli dall’atmosfera rinascimentale del centro storico, templi della gastronomia capricciosamente disseminati per ogni dove (La Brace secondo me mezzo gradino sopra tutti), quella melodiosa parlata che è una specie di ciociaro ingentilito e armonico e che ti mette ipso facto di buonumore (così come quella anconetana un po’ singhiozzante, sincopata e in levare mette un po’ il nervoso).piazza_liberta_tabocchini400

Piazza della Libertà e Piazza del Campo nella loro scenografica pendenza

Nonostante Macerata abbia ospitato l’agonia e la morte della mia zia e vice-mamma e il crollo nella demenza senile del babbo Tonino e sia stata quindi, un quarto di secolo fa, la meta di affannose rimpatriate coatte in cui mi sciroppavo 700 chilometri nello spazio di un weekend, continuo a ricordarla come un angolo di gioia e di bellezza.

Non mi va di dire altro. Se non di abbracciarla come una vecchia signora oltraggiata e messa sotto i riflettori della spietata cronaca non per le sue virtù ma per un episodio che la marchia a fuoco. Un po’, per altro, come successe 12 anni fa a Parma che, in un turbinio di ammazzamenti abietti ed aberranti venne definita da Repubblica “l’Aspromonte del Nord”.

ADRIANO 80.

Gli ormai imminenti 80 anni di Celentano sarebbe bello che diventassero una festa nazionale, o meglio nazional-popolare, che rispecchi un’Italia semplice ma geniale, esterofila e quietamente provinciale, metropolitana e contadina, sempre in bilico fra il boom e la catastrofe, capace di enormi sorprese come di cialtronesche furbate.

Per certi versi Celentano è talento allo stato puro, ma solo per certi versi. Negli anni ha lavorato su se stesso diventando uno spaccato della nazione con le sue inesauste contraddizioni. Un personaggio, un’icona, un feticcio, perennemente in bilico fra showman e paziente artigiano scenico, capace con simpatica improntitudine di riciclare i suoi obiettivi limiti personologici in tratti caratteristici quasi ammalianti (silenzi, paurosi limiti dialettici, sentenziosità autoreferenziale, vocalità complessivamente grezza e chi più ne ha più ne metta).

Il punto più basso credo sia l’imbarazzante intervista a David Bowie che, del thin white duke essendo sfegatato ed enciclopedico esegeta, non gli perdonerò mai.

Il più alto potrebbe essere il suo sgangherato sconclusionato gustosissimo “Fantastico”. Ma come privatissimo apprezzamento, trovo superlativa la sua prova d’attore in “Ecco, noi, per esempio…”, commedia dai risvolti agrodolci accanto al solito impagabile Renato Pozzetto, di cui vi ammannisco la seconda parte meno ridanciana.

In mezzo, tante belle canzoni anche abbastanza “trasversali”, di facile ascolto ma con tematiche non banali di tipo paraecologistico e/o misticheggiante accanto ad altre (scaltramente?) sconfinanti in un qualunquismo un po’ becero anti-beat, anti-divorzio, anti-sciopero (“Dammi l’aumento, signor padrone” francamente era un verso che tirava gli schiaffi), e una bellissima carriera da attore brillante (salvo quando si è diretto da solo, ma questo  capitava anche ad Alberto Sordi, si parva licet comparare magnis).

Alla fine, se inevitabilmente devo sintetizzare un vissuto complesso in poche sentenziose parole, l’ho sempre sentito come un interessante compagno di viaggio, uno che di quando in quando si perde di vista ma poi fa piacere ritrovarlo, sperando che nel frattempo non sia troppo cambiato. E in questo non mi ha mai deluso.

 

 

MA GLI ANNI FINISCONO? COSA VUOL DIRE?

moto-di-rotazione-e-rivoluzioneLa Terra gira intorno al Sole a 100 volte la velocità del suono per coprire il miliardo scarso di chilometri della sua orbita, e la completa ogni 365 giorni, 6 ore, 9 minuti e 10 secondi.pianeti-extrasolari11

Il Tempo ovviamente non si cura di tutto ciò e procede rettilineo ed omogeneo.

Come diceva benissimo Gramsci, Cosí la data diventa un ingombro, un parapetto che impedisce di vedere che la storia continua a svolgersi con la stessa linea fondamentale immutata, senza bruschi arresti.

Un anno non finisce nello stesso modo in cui finisce un giorno, riconosciuto nella sua evoluzione fra alba e tramonto e con la mezzanotte che comunque coincide con un orologio interno che generalmente a quell’ora brama distensione e riposo.

Gli anni sono in loop fra loro, demarcazioni convenzionali che aiutano ad organizzare la memoria ma non iniziano e non finiscono come una canzone o una vita.

I più fortunati contengono in sè eventi specifici e puntuali che li caratterizzano, vedi il 1968 o il fratellino venuto male  1977, il 1492, il 1848, il 1861, il 1776, si originano per la comunità cristiana dalla nascita del suo profeta ma curiosamente ciascuno prende inizio dall’anniversario della sua circoncisione.

A volte si ha l’impressione che veramente il nuovo anno spazzi via il vecchio, come sicuramente si può dire per il 1919 e il 1946, ma anche per il plumbeo e intricato 1969 rispetto al rivoluzionario creativo 1968, ma si tratta solo di coincidenze.

I decenni, viceversa, come contenitori fortemente differenziati, per una sorta di legge dei grandi numeri, hanno una maggiore credibilità, ed è facile immaginare i 60, i 70 e gli 80 diversissimi fra loro ma cabalisticamente in un rapporto di tesi-antitesi-sintesi.

E pur tuttavia, vivo la suggestione del Capodanno come quella del Natale ma a modo mio, da parecchi anni non imbarcandomi più in edonistiche ridanciane riunioni ma riflettendo sull’imponderabilità ed ineffabilità della umana avventura.

Ma dedicando un incondizionato affetto a distanza ai pochi che se lo meritano e che magari mi stanno coraggiosamente leggendo.

Nadäl a Les’gnà.

Un Natale tautologico, ricorsivo ed autoreferenziale in quel di Lesignano de’ Bagni con le sue quiete bellezze paesaggistiche ed i suoi scorci sapientemente vintage.

Dickensiani scorci dei Natali che furono,

di solitudini a Natale, di Natali allo zenzero col bue riscaldante e il bottegaio che ha suonato nei Via Verdi (che ricordi!!!).

 

Intanto commuoviamoci, qualora la cosa riesca ancora, per un blog dato per morto e sepolto, e che invece risorge glorioso dalle sue presunte ceneri un po’ troppo in fretta celebrate.

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Se si ritorna significa quanto meno (a) che si hanno ancora gli strumenti dinamici per trasmigrare da un punto all’altro e (b) che si possiede ancora una mappa. Ma pensandoci meglio il punto (b) può essere omesso, delle volte si ritorna per puro caso e, dopo aver detto “Ma dài…” si decide di trattenersi. Quanto a lungo non si sa.

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Il Blog di Beppe Grillo

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Annamaria - liberi pensieri

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TerryMondo

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Rossi Orizzonti

...e navigando con le vele tese io sempre cercherò il mio orizzont

Franz-blog.it

(diario di un esule)