Modesto quasi vergognosamente banale tributo a Lucio Dalla. Con qualche citazione ad assorbire la commozione.
Un anno senza Lucio. Stavolta davvero non è un luogo comune, non diciamo “un po’ retorici che sembra ieri” (ma nella canzone di Guccini di anni ne erano passati 25), resta l’impressione indelebile di Piazza Maggiore strapiena, dell’intreccio fra il sacro e il profano, di quella cerimonia così pesantemente cattolica che non sono del tutto sicuro coincidesse perfettamente con quello che Lucio desiderava, di quel popolo multicolore e assolutamente trasversale fatto di persone che “senza conoscersi, di città diverse, socialmente differenti cantavano la loro proposta”.
Un popolo che un anno fa avevo dipinto con il flulminante incipit della carriera di Lucio paroliere: “Siamo noi, siamo in tanti, ci nascondiamo di notte per paura degli automobilisti, dei linotipisti”, quando si era emancipato dall’egemonia culturale di Roberto Roversi dopo avergli amichevolmente rubato qualche minimo retrogusto, novello Prometeo in questa occasione per fortuna non vittima della vendetta degli dei per il proprio eccesso di hybris.
Chiedo scusa se ho parlato di Lucio. Non nel senso di un discorso, quello che mi veniva.
Perché non ho visto mai nessuno buttare lì qualcosa e andare via.